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Channel: globalismo – Pagina 7 – eurasia-rivista.org

CI SI PUÒ FIDARE DELLA TURCHIA?

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Quando mai s’è visto accogliere col tappeto rosso chi l’ha appena combinata grossa, platealmente, senza porgere alla parte offesa un minimo di scuse? Non è che l’aereo militare russo è stato abbattuto dai turchi su ordine di qualcun altro?

Lo stesso che poi ti stende il tappeto rosso e ti promette, sull’unghia, tre miliardi di euro per “gestire i migranti” che proprio tu stai creando, tra “crisi siriana” e “questione curda”…

E che succederà quando tutti i “turchi” (cioè anche i curdi) potranno “circolare liberamente” nell’UE senza peraltro farne parte? Ci sarà ancora Papa Francesco a raccontare la favola della “accoglienza”? Verranno anche loro a svolgere “quei lavori che gli italiani non vogliono più fare”?

Sono queste alcune delle domande che il cittadino medio dell’Unione Europea dovrebbe porsi di fronte allo scappellamento senza ritegno delle cosiddette “autorità europee” al cospetto del ministro degli Esteri turco, gongolante come non mai per il bottino portato a casa.

A nulla varrà la foglia di fico del riconoscimento dell’“olocausto armeno” o del “rispetto della libertà di stampa”, invocati dai leader europoidi come “contropartita” per questa manna dal cielo. I turchi continueranno (giustamente) a fare come gli pare a casa loro, mentre noi ci prenderemo solo il peggio da tutto questo “accordo”.

Intendiamoci bene: non è questione di “mamma li turchi” o di “islamofobia”. I turchi sono un popolo fiero ed orgoglioso, e semmai siamo noi ad essere nel torto e perdenti quando ci pensiamo talmente “evoluti” dal non riuscire più a concepire un sussulto di dignità patriottica se non per stringerci intorno al “povero” Charlie Hebdo.

Chiarito questo, qui si tratta di capire dove sta il vantaggio di questi “negoziati” per entrambi i contraenti.

Della Turchia, negli anni scorsi, ci siamo occupati, io ed i miei amici di “Eurasia”, in numerosi articoli ed anche in qualche intervista, soprattutto a cura dell’ottimo Aldo Braccio, che quel paese “ponte d’Eurasia” lo conosce bene. Più e più volte abbiamo ribadito che la Turchia è in grado, per la sua posizione e la sua proiezione etnico-linguistica nell’Asia profonda, di svolgere una fondamentale funzione eurasiatica.

Ma quella è una possibilità, alla quale è da considerarsi contrapposto, come alternativa antitetica, un arroccamento su posizioni nazionaliste unilaterali, che nel contesto di una posizione-chiave nella Nato non possono che condurre ad esiti tragici come l’abbattimento dell’aereo militare russo e chissà cos’altro poi.

A ciò si aggiungano altre questioni, meno tangibili ma non per questo da ignorare. Come certe “affiliazioni” già operative da oltre un secolo, che al momento buono si attivano per far convergere gli sforzi di potenze regionali in determinate “guerre sante”, prima condotte conto il Bolscevismo ed ora contro lo “zar” Putin.

Aveva dunque ragione il compianto John Kleeves (alias Stefano Anelli) quando scriveva che, senza ovviamente questionare su ogni singolo individuo, dei turchi e dei loro ‘consanguinei’ membri e amici della Nato non c’è da fidarsi? All’epoca (parliamo degli anni successivi alla guerra contro la Jugoslavia), persino chi gli dava solitamente credito si ritrasse inorridito davanti a cotanta insinuazione “razzista”. Ma qui non è questione di avercela con questo o quello per partito preso: basta e avanza giudicare quello che fa. E stiamo parlando essenzialmente di dirigenze.

Ricordo che quando Umberto Bossi ce l’aveva ancora “duro”, un giorno se ne uscì con una delle sue “sparate”, che a volte coglievano nel segno più di tanti bei discorsi all’aria fritta dei “moderati”: lui, che con la Lega s’era schierato subito con i serbi contro gli albanesi kosovari, denunciò le responsabilità della Turchia nell’arrivo sulle coste sudorientali italiane di “migranti” provenienti dal Vicino Oriente. In particolare di curdi, che notoriamente non godono di troppa simpatia presso i governi di Ankara.

Bene, in men che non si dica, le agenzie “internazionali” (compreso il nostro Televideo), batterono l’incredibile “notizia” di un convoglio (sì, avete letto bene, un convoglio di, non ricordo bene, chissà quante navi) diretto dalla Turchia all’Italia, per un totale di migliaia di immigrati. Una “notizia” che, guarda caso, fu notata dallo stesso Kleeves, ed anche dal sottoscritto, così come – udite udite – verificammo, altrettanto allibiti come quando si paventava uno sbarco a dir poco epocale, che già in serata tale “notizia” era tornata da dov’era venuta: cioè nel nulla delle fandonie e delle minacce più o meno plateali.

L’immigrazione come arma di dissuasione, dunque. Per ricondurre chi “esagera” a più miti consigli… E poco dopo venne ammazzato il giuslavorista che lavorava col ministro Maroni, ovviamente per mano delle cosiddette redivive Brigate Rosse… Due piccioni con una fava: bocche cucite sugli sbarchi e sulle “riforme” nel mercato del lavoro.

Con simili ‘incoraggianti’ premesse, ci sarà da meravigliarsi se, in un regime di “libera circolazione”, la Turchia favorisse l’espatrio, a casa nostra, di quanti più curdi possibile? E che fine farà, stante la profonda e ‘cordiale intesa’ tra tutti questi ‘tarantolati’ d’Europa e d’Asia, chi oserà mettersi di traverso a quello che si configura come un vero e proprio patto scellerato?

Colpisce, in queste ore, la sincronia di alcuni provvedimenti: la Russia vieta di assumere turchi, e noi li “accogliamo” potenzialmente tutti quanti in “Europa”. Un’Europa dai confini sempre più fantasiosi ed irrealistici, tanto che, ponendo fine a quest’ignobile farsa, la si potrebbe chiamare direttamente “Nato”, tanto la cosiddetta “alleanza” militare ha il sopravvento su questo simulacro di “unione” politica.

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MIGRAZIONI

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Il termine migrazione indica uno spostamento di uomini o di animali da una sede ad un’altra; esistono perciò migrazioni di popoli e di persone singole, così come migrazioni di gru o di anguille. Considerato in relazione agli esseri umani (individui e collettività), il fenomeno migratorio si rivela alquanto complesso, sicché comporta diverse definizioni e classificazioni.

Secondo l’ONU sono da ritenersi spostamenti migratori i cambiamenti di residenza aventi una durata superiore ad un anno, per cui restano esclusi fenomeni quali “il pendolarismo, il frontalierato, la transumanza, l’alpeggio, il nomadismo e quelle forme di spostamenti ciclici legati al bracciantato agricolo stagionale, alla vendita di manufatti prodotti direttamente, alla prestazione d’opera o di servizi stagionali” (1).

Considerata in base alla sua durata, una migrazione può essere permanente o temporanea, anche se una distinzione di questo genere non è sempre facile: un trasferimento che secondo il progetto iniziale doveva essere temporaneo può diventare definitivo, mentre un trasferimento progettato come definitivo può risolversi, per cause impreviste, in uno spostamento temporaneo.

Per quanto riguarda l’ampiezza, le migrazioni possono essere classificate come intraregionali ed extraregionali, intranazionali ed extranazionali, intracontinentali ed extracontinentali.
Rispetto al numero degl’individui migranti, si distinguono migrazioni per infiltrazione e migrazioni di massa. Nel primo caso, “il movimento migratorio si svolge mediante il trasferimento di singoli individui o, al massimo, di piccoli nuclei familiari” (2). Alla categoria delle migrazioni di massa (spostamenti di popoli interi o comunque di grandi gruppi umani) appartengono invece le conquiste, le colonizzazioni, le invasioni.

“Invasioni barbariche”, ad esempio, è la locuzione preferita dagli storici italiani e francesi per indicare quel vasto fenomeno di spostamenti a catena che a partire dai secc. IV e V d.C. interessò popolazioni eterogenee del continente eurasiatico, per concludersi col loro insediamento su territori che in molti casi erano già appartenuti all’Impero romano e che comunque erano diversi da quelli di cui tali popolazioni erano originarie. Come è noto, questo fenomeno migratorio è stato invece definito dalla cultura tedesca col termine più neutro ed anodino di “migrazioni di popoli” (Völkerwanderungen).

In relazione alla volontà degl’individui che migrano, vi sono migrazioni definibili come volontarie (allorché si sceglie liberamente di trasferirsi altrove allo scopo di migliorare la propria condizione economica) ed altre qualificabili come coatte (in quanto determinate da costrizioni politiche o persecuzioni oppure da eventi bellici o catastrofi naturali).

I cosiddetti fattori di spinta migratoria, ossia quelli che inducono ad emigrare, sono dunque diversi. Un potente fattore di spinta è quello economico, quando nel paese d’origine le opportunità di lavoro sono scarse ed il tenore di vita è inferiore rispetto alle aree scelte come destinazione. Vi sono poi fattori di spinta migratoria definibili come politici: guerre, conflitti etnici, persecuzioni ecc.

Tra i fattori che agevolano il movimento migratorio, quelli sociali consistono nell’esistenza di una rete capace di assicurare un certo sostegno ai migranti appena arrivati nel paese di destinazione. Tale rete di relazioni sociali può coincidere con una comunità di connazionali che, già insediata nel paese prescelto, consente ad amici e parenti rimasti in patria di emigrare a loro volta, offrendo informazioni, risorse per il trasferimento e infine assistenza nella ricerca di una sistemazione. Si tratta di un processo a catena: “Se esiste una ‘legge’ in materia di migrazioni, è che un flusso migratorio, una volta avviato, si alimenta da solo” (3). Ma la rete di relazioni sociali a sostegno dei migranti può anche essere costituita da organizzazioni non governative o da enti assistenziali, sia laici sia ecclesiastici, che coinvolgono le amministrazioni e la politica.

A livello infrastrutturale, un fattore agevolante è rappresentato dalla disponibilità dei trasporti, legali e illegali, eventualmente affiancati dalle iniziative “umanitarie” organizzate dai governi.
Infine, “risultato delle condizioni facilitatrici sociali e infrastrutturali, l’immigrazione è stimolata dal numero crescente di imprese clandestine che organizzano l’immigrazione illegale” (4).

Ai fattori di spinta migratoria si collegano le strategie specificamente concepite al fine di creare o manipolare un movimento migratorio di massa. In tal caso si ha a che fare con quelle che Kelly M. Greenhill (già assistente del senatore John Kerry e già consulente del Pentagono, presidentessa del gruppo di lavoro pubblico su conflitto, sicurezza e politica presso la Harvard Kennedy School of Government del Belfer Center) chiama “migrazioni progettate coatte” (coercive engineered migrations), vale a dire “movimenti di popolazione transfrontalieri che vengono deliberatamente creati o manipolati al fine di strappare concessioni politiche, militari e/o economiche ad uno o più Stati presi di mira” (5). La Greenhill individua tre distinte categorie di migrazioni strategicamente progettate: quelle espropriatrici, quelle esportatrici e quelle militarizzate. “Le migrazioni progettate espropriatrici sono quelle in cui il principale obiettivo è l’appropriazione del territorio o della proprietà di un altro gruppo o gruppi, oppure l’eliminazione di tale gruppo o di tali gruppi in quanto minacciano il dominio etnopolitico o economico di coloro che progettano la migrazione (o le migrazioni); rientra in questo caso ciò che è comunemente noto come pulizia etnica. Migrazioni progettate esportatrici sono le migrazioni progettate per rafforzare una posizione politica interna (espellendo dissidenti politici ed altri avversari interni) oppure per sconfiggere o destabilizzare uno o più governi stranieri. Infine, migrazioni progettate militarizzate sono quelle effettuate, di solito durante un conflitto armato, per acquisire vantaggio militare contro un avversario – attraverso la spaccatura o la distruzione del suo centro di comando, della sua logistica o delle sue capacità di movimento – oppure per rafforzare la propria struttura attraverso l’acquisizione di personale o risorse aggiuntive” (6).

Parlando dell’immigrazione clandestina di massa che ha sconvolto l’Europa nel 2015, il presidente ceco Miloš Zeman ha inquadrato il fenomeno nello schema delineato dall’ex assistente di Kerry.
“La cosiddetta crisi migratoria – ha detto Zeman nel corso di una visita ufficiale a Pardubice – è un’invasione organizzata, il cui scopo è quello di abbattere le strutture sociali, culturali, economiche e politiche europee. È un’invasione ben organizzata. Non è spontanea. Ci sarà un momento in cui l’esercito ceco dovrà agire per difendere i confini della Repubblica Ceca”.

Insomma, come ebbe a dire un’altra docente universitaria statunitense l’11 dicembre 2000, commentando la guerra in Cossovo, “È cambiata la natura stessa della guerra; adesso i rifugiati sono la guerra” (“The nature of war itself has changed; now the refugees are the war”).

Le “migrazioni progettate coatte” (coercive engineered migrations) si configurano perciò come un’arma non convenzionale che, al pari di altre armi altrettanto non convenzionali (terrorismo, manipolazione dei media, pirateria informatica, turbative dei mercati azionari ecc.), viene usata per combattere quella che due celebri polemologi cinesi hanno chiamata “guerra senza limiti”. È interessante e significativo il fatto che i due polemologi accostino George Soros a Bin Laden (7): il famigerato “filantropo” è stato citato dal primo ministro ungherese Viktor Orbán, in un’intervista rilasciata a Radio Kossuth, in relazione all’invio in Europa di sedicenti profughi provenienti dall’Africa e dal Vicino Oriente. “Il suo nome – ha detto Orbán – rappresenta forse il caso più noto di coloro che sostengono tutto ciò che sovverte il tradizionale stile di vita europeo”, mentre gli attivisti delle sue organizzazioni, fornendo assistenza legale e pratica agl’immigrati clandestini, “diventano inavvertitamente parte della rete internazionale di contrabbando di esseri umani”.

In seguito agli attacchi terroristici di Parigi attribuiti al Daesh (il sedicente “Stato Islamico”), è stata nuovamente presa in considerazione l’ipotesi di un rapporto tra movimenti migratori e terrorismo. In realtà, molti migranti hanno abbandonato la loro terra proprio per sottrarsi alla ferocia del Daesh o, comunque, alle condizioni catastrofiche create in Africa e nel Vicino Oriente dalle aggressioni occidentali. Tuttavia, data la mancanza di efficaci controlli alle frontiere dell’Unione Europea, non si può certo escludere che i flussi migratori, controllati da gruppi criminali, abbiano recato con sé anche elementi affiliati ad organizzazioni terroristiche o da queste facilmente reclutabili. “Da tempo – ha dichiarato un funzionario dei servizi d’informazione – sappiamo che il traffico di esseri umani sta attirando l’attenzione di milizie estremiste e formazioni terroristiche, incluso Islamic State. Sia come possibile metodo di veicolamento verso l’Europa di elementi ostili a loro affiliati, sia in quanto canale di finanziamento” (8). In ogni caso, una massa di immigrati destinata a condizioni di vita precarie, all’emarginazione ed alla frustrazione non può non costituire un bacino ideale per l’azione di proselitismo dei gruppi terroristi.

NOTE
1. E. Squarcina, Glossario di geografia politica e geopolitica, Società Editrice Barbarossa, Milano 1997, p. 96.
2. E. Dell’Agnese, Le dinamiche demografiche, in: G. Corna Pellegrini – E. Dell’Agnese – E. Bianchi, Popolazione, società e territorio, Unicopli, Milano 1991, p. 144.
3. M. Weiner, Global Migration Crisis, Harper Collins, New York 1995, p. 21.
4. I.S.M. U., Primo rapporto sulle migrazioni 1995, Franco Angeli, Milano 1995, p. 64.
5. “cross-border population movements that are deliberately created or manipulated in order to induce political, military and/or economic concessions from a target state or states” (K. M. Greenhill, Weapons of Mass Migration. Forced Displacement, Coercion, and Foreign Policy, Cornell University Press, Ithaca and London 2010, p. 13).
6. “Dispossessive engineered migrations are those in which the principal objective is the appropriation of the territory or property of another group or groups, or the elimination of said group(s) as a threat to the ethnopolitical or economic dominance of those engineering the (out-)migration; this includes what is commonly known as ethnic cleansing. Exportive engineered migrations are those migrations engineered either to fortify a domestic political position (by expelling political dissidents and other domestic adversaries) or to discomfit or destabilize foreign government(s). Finally, militarized engineered migrations are those conducted, usually during armed conflict, to gain military advantage against an adversary – via the disruption or destruction of an opponent’s command and control, logistics, or movement capabilities – or to enhance one’s own force structure, via the acquisition of additional personnel or resources” (K. M. Greenhill, Weapons of Mass Migration, cit., p. 14).
7. Qiao Liang – Wang Xiangsui, Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2001, pp. 101 e 118.
8. C. Gatti, Migranti, un affare da 3 miliardi che finanzia anche il terrorismo, “Il Sole 24 Ore”, 22 novembre 2015, p. 4.

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Migrazioni

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EURASIA 4/2015
MIGRAZIONI

 

Editoriale
 
Claudio Mutti, Migrazioni
 
 
Teoria geopolitica
 
Aleksandr Gel’evič Dugin, Significati della multipolarità
Davide Ragnolini, La Dymaxion Map e la liquidazione della Terra
Cristian Pantelimon, Vasile Gherasim e l’Eurasia spirituale
 
 
Dossario: Migrazioni
 
Luca Baldelli, Tre elementi complementari della strategia mondiali sta
François Bousquet, Tutti turisti, tutti migranti
Domenico Caldaralo, L’ingegneria sociale come arma geopolitica
Enrico Galoppini, Immigrazione ed islamofobia: nuova fase dello “scontro di civiltà”
Ali Reza Jalali, L’asilo politico in Italia
Stefano Vernole, L’immigrazione in Italia: numeri e proiezioni
Sara Nardi, L’immigrazione cinese in Italia
Manuel Ochsenreiter, Germania: la lobby dei “confini aperti”
Yannick Sauveur, Francia: la retorica dell’accoglienza
Giuseppe Cappelluti, Da conquistatori a pieds noirs. I Russi fuori dalla Russia
Alessandro Gatti, Le migrazioni cinesi
Lorenzo Salimbeni, Istriani, Fiumani e Dalmati esuli in patria
Claudio Mutti, Le migrazioni degli Zingari
 
 
Documenti
 
Ernesto Massi, Geografia politica e geopolitica
Jean Thiriart, L’Europa fino a Vladivostok
 
 
Interviste
 
Intervista a S. E. Ján Šoth, Ambasciatore della Repubblica Slovacca in Italia
Intervista a S. E. Péter Paczolay, Ambasciatore d’Ungheria in Italia
Intervista a Gábor Vona, Presidente del Movimento per un’Ungheria Migliore (Jobbik)
 
 
Recensioni
 
Kelly M. Greenhill, Weapons of Mass Migration. Forced Displacement, Coercion and Foreign Policy, Cornell University Press, Ithaca – London 2010 (Davide Ragnolini)
 
 
Archivio
 
Dottrina geopolitica – Geofilosofia – Il continente eurasiatico – Cina – Iran – Vicino Oriente – Nordafrica – America indiolatina

 

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MIGRAZIONI

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EURASIA 4/2015
MIGRAZIONI

Editoriale
Claudio Mutti, Migrazioni

Teoria geopolitica

Aleksandr Gel’evič Dugin, Significati della multipolarità

La teoria dell’ordine mondiale multipolare non ha ricevuto ancora un approfondito tentativo di sistematizzazione all’interno degli studi internazionalistici. Nell’articolo che traduciamo di seguito Aleksandr Dugin delinea il paradigma del sistema multipolare all’interno dell’IR, il quale emerge attraverso una descrizione che procede per differenziazione rispetto agli altri sistemi di ordine mondiale, suggerendo un’utile panoramica concettuale di orientamento nell’insieme dei modelli teorici forniti dalla ricerca politologica degli ultimi decenni.

Davide Ragnolini, La Dymaxion Map e la liquidazione della Terra

Il sapere geografico si è sempre fatto mezzo di trasmissione di contenuti reali ed immaginari, fattuali ed utopici, storici e visionari, i quali hanno potuto assolvere ad una funzione di orientamento del pensiero umano nello spazio e nel tempo. Ogni epoca ha riprodotto nelle proprie rappresentazioni storiografiche e cartografiche tanto il suo orizzonte temporale reale, quanto le sue prospettive spaziali ideali. La dimensione sferica dello spazio della globalizzazione raffigurato agli inizi della modernità ha ceduto progressivamente il posto all’emersione di prospettive ‘aeronautiche’ della Terra e di radicali utopie politico-geografiche contemporanee. La rappresentazione cartografica di Richard Buckminster Fuller costituisce un singolare punto di vista attestante la centralità contemporanea dell’elemento aereo nella politica mondiale, nonché il tentativo di contrapposizione di prospettive geografiche ‘globalizzanti’ alle tradizionali categorie della geopolitica classica.

Cristian Pantelimon, Vasile Gherasim e l’Eurasia spirituale

“Eurasia spirituală” (1931) è un’opera che, a quanto pare, per la prima volta pone in modo categorico il problema dell’affinità profonda tra le filosofie dei popoli del Grande Continente eurasiatico. Inoltre, si tratta della prima opera che separa nettamente il procedimento geopolitico (attento alle grandi provocazioni ed alle soluzioni spirituali nello spazio e nel tempo) da quello politico (che si accontenta di frammentare la realtà, deformandola per mezzo di prospettive soggettive). Col suo tentativo, Vasile Gherasim apre la strada all’eurasiatismo nella cultura romena e si fa esponente della Rivoluzione Conservatrice, che nel periodo interbellico si è manifestata in maniera vigorosa a livello europeo e che non è se non un avatar del tradizionalismo spirituale del popoli che abitano il nostro continente.

Dossario: Migrazioni

Luca Baldelli, Tre elementi complementari della strategia mondialista

La teoria dello “scontro delle civiltà” , da Lewis a Huntington, mira a scavare un fossato tra culture e popoli che potrebbero trovare, attraverso il reciproco rispetto, le basi per un comune e fruttuoso dialogo. Dietro a questa strategia si profila il mondialismo, lo stesso sistema all’opera nella sovversione della Siria, della Libia e di altri paesi ancora, nonché nella gestione e nello sfruttamento dei flussi migratori.

François Bousquet, Tutti turisti, tutti migranti

Lo sfruttamento della sofferenza a scopi propagandistici non è recente. L’immagine del piccolo Aylan Kurdi, morto su una spiaggia turca, non ha fatto eccezione alla regola. Atroce. Ciò però significa dimenticare che nel mondo ogni sei secondi un bambino muore di fame, secondo la FAO. Non una riga nei giornali, legge del chilometro sentimentale. Quando “il cinismo non va più”, osservava Bernanos, e “l’onestà ritorna di moda” nelle società che “hanno perduto perfino il coraggio dei loro vizi”, allora fiorisce la razza umana dei “Bempensanti”, apostoli della migrazione per tutti.

Domenico Caldaralo, L’ingegneria sociale come arma geopolitica

Dalle tecniche di manipolazione psicologica all’uso delle migrazioni come armi di guerra, gli studi nel campo comportamentale e delle scienze politiche vengono correntemente utilizzati, sul piano della realpolitik, come strumenti di influenza nelle relazioni tra stati e nel mantenimento della rule of law sul piano nazionale. Lo sfruttamento dei flussi migratori da una parte e l’uso di strumenti di indagine psicologica nel campo economico e amministrativo dall’altra, configurano una nuova potente forma di “manipolazione” dell’essere umano a fini coercitivi e di controllo sociale, riassumibile nella categoria di “ingegneria sociale”.

Enrico Galoppini, Immigrazione ed islamofobia: nuova fase dello “scontro di civiltà”

L’equazione tra immigrazione, Islam e terrorismo nasce anche dalla confusione tra due questioni distinte: quella “immigratoria” e quella “islamica”. Mentre la prima rappresenta effettivamente un problema essenzialmente socioeconomico e di ordine pubblico, la seconda, di carattere culturale, e sulla quale incombe l’ipoteca dell’islamismo politico, è fonte di malintesi ed equivoci alimentati da chi ha interesse a fomentare lo “scontro di civiltà”.

Ali Reza Jalali, L’asilo politico in Italia

All’interno della macroarea degli immigrati, quella del migrante politico è una categoria particolare, riconducibile alla volontà di sfuggire non tanto a situazioni economicamente difficili, ma alle avverse condizioni sociopolitiche del paese d’origine, come conflitti armati o regimi repressivi. Il sistema normativo italiano risponde alle esigenze di tali migranti politici attraverso l’istituto giuridico dell’asilo politico, caratterizzato da fattori ampiamente dibattuti in dottrina, nel mondo politico e nella giurisprudenza.

Stefano Vernole, L’immigrazione in Italia: numeri e proiezioni

Da un’analisi critica e da una lettura scevra di pregiudizi dei dati relativi alla presenza di immigrati extracomunitari e cittadini stranieri sul territorio italiano emerge una situazione estremamente problematica in relazione alla criminalità, al mercato del lavoro ed alle spese collegate alla loro presenza (assistenza sanitaria e scolastica, abitazioni, carceri e tribunali, accoglienza ed espulsioni ecc. ecc.).

Sara Nardi, L’immigrazione cinese in Italia

Il fenomeno dei flussi migratori cinesi e la presenza delle comunità cinesi in Italia non è mai stato oggetto di uno studio sistematico che ponesse in luce le motivazioni di questi particolari soggetti antropologici ed i problemi da loro affrontati una volta giunti in Italia; in un momento storico in cui l’immigrazione in Europa è al centro del dibattito, quella “invisibile” e “silente”dalla Cina necessita di approfondimenti. Di seguito, un excursus storico dall’origine della diaspora cinese internazionale fino all’odierna integrazione dei Cinesi di seconda generazione.

Manuel Ochsenreiter, Germania: la lobby dei “confini aperti”

L’ondata migratoria di massa investe l’Europa e specialmente la Germania da alcuni mesi. Le autorità tedesche ritengono che nei prossimi anni arrivino nell’Europa centrale milioni di migranti provenienti dall’Africa e dal Vicino Oriente. Un’interessante alleanza di diversi settori politici tedeschi sta conducendo una rumorosa propaganda per la “accoglienza dei rifugiati”: gruppi liberalconservatori alleati con la sinistra radicale. Com’è che agiscono questi gruppi? Qual è il loro interesse? Questione ancor più interessante: perché questi stessi gruppi stanno esercitando pressioni affinché vengano bombardati altri paesi?

Yannick Sauveur, Francia: la retorica dell’accoglienza

Questo articolo cerca di analizzare il discorso “ufficiale” circa la fiumana dei migranti. Come spiegare questa politica in favore dell’accoglienza, quando la situazione economica dell’Europa è disastrosa, sicché non mancheranno di prodursi tensioni etnico-sociali senza precedenti? La morale si è sostituita alla politica per spianare la strada ad un universalismo comunitarista, sul modello della società americana e senza alcun riguardo per i popoli e la loro storia.

Giuseppe Cappelluti, Da conquistatori a pieds noirs. I Russi fuori dalla Russia

La questione dei Russi etnici fuori dalla Russia è un tema alquanto complesso. Come tutti i grandi imperi, anche quello russo è stato caratterizzato da forti migrazioni verso le periferie, e al pari del suo grande avversario, gli Stati Uniti, anche l’Unione Sovietica è stata un Paese in continuo movimento. Ciò contribuisce a spiegare la diffusa presenza di Russi etnici (nonché di Ucraini e Bielorussi) in quasi tutta l’Eurasia ex sovietica, anche al di fuori della Russia propriamente detta. Le migrazioni, però, costituiscono solo una parte della spiegazione: in un contesto in cui l’identità etnica russa è legata alla cultura e non al sangue, i casi di assimilazione di non-Russi sono stati numerosi. In ogni caso, seppur con notevoli differenze da zona a zona, la caduta della patria del socialismo reale ha portato alla nascita di una questione russa non troppo dissimile da quelle insorte in seguito al collasso di molti grandi imperi.

Alessandro Gatti, Le migrazioni cinesi

Nel corso dei secoli la Cina ha impresso nella storia dell’umanità un’immagine indelebile del suo passaggio. Storia, cultura e tradizioni si sono incontrate in quella che lo storico e geografo tedesco Ferdinand Von Richthofen ha definita “Via della seta”. Il popolo cinese ha sperimentato l’emigrazione nel momento del bisogno, ricercando in prossimità dei suoi territori le alleanze strategiche di cui abbisognava per tutelare i propri confini e garantirsi la sicurezza. L’articolo ripercorre i punti salienti del fenomeno migratorio cinese dal sec. II a. C. ai giorni nostri, toccando gli aspetti fondamentali che lo hanno condizionato e caratterizzato.

Lorenzo Salimbeni, Istriani, Fiumani e Dalmati esuli in patria

Il 10 febbraio 1947 il trattato di pace che l’Italia fu costretta a firmare a Parigi assegnò alla Jugoslavia di Tito la maggior parte di quelle terre istriane e dalmate che erano state annesse al termine della Prima Guerra Mondiale. Il 90% della comunità italiana, che viveva da secoli in quelle terre, traumatizzata dalle deportazioni e uccisioni di connazionali e di oppositori del regime titoista avvenute in due ondate (successivamente all’8 Settembre e poi a guerra finita), nonché dall’instaurarsi di un nuovo ordine sociale ed economico che sconvolgeva consolidati equilibri, decise di intraprendere la via dell’esilio. Città come Pola e Fiume si svuotarono completamente; la permanenza nei Centri Raccolta Profughi allestiti in territorio metropolitano fu prolungata e disagiata e migliaia di esuli si sparpagliarono in altri continenti alla ricerca di migliori condizioni di vita.

Claudio Mutti, Le migrazioni degli Zingari

La migrazione zingara si è configurata come una migrazione di massa, permanente ed epidemica, che si è risolta in una sorta di diaspora. Itineranti, più che nomadi, i gruppi zingari hanno instaurato con le popolazioni sedentarie un rapporto di tipo parassitario. Diversamente da altre etnie itineranti, quella zingara non ha mai seriamente aspirato ad organizzare politicamente e giuridicamente la propria società su un territorio determinato.

Documenti

Ernesto Massi, Geografia politica e geopolitica

Ernesto Massi (Gorizia, 9 giugno 1909 – Roma, 5 giugno 1997), docente di geografia economica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e all’Università di Pavia, nel 1939 diede vita – assieme al professor Giorgio Roletto dell’Università di Trieste – alla rivista “Geopolitica. Rassegna mensile di geografia politica, economica, sociale, coloniale”. La rivista, che nel primo numero riportava uno scritto di saluto di Karl Haushofer, fu patrocinata dal ministro Bottai ed annoverò tra i collaboratori molti geografi italiani, nonché studiosi di altre discipline (tra cui Amintore Fanfani); uscì fino al 1942, dando spazio a saggi ed articoli che definivano la geopolitica e i suoi oggetti di studio. Combattente sul fronte russo durante la seconda guerra mondiale, nell’ottobre 1943 Massi aderì alla Repubblica Sociale Italiana. Colpito nel dopoguerra da un provvedimento di epurazione, fu costretto ad abbandonare l’insegnamento, che poté riprendere solo nel 1955 nelle Università di Lecce e di Brescia. Dal 1959 insegnò all’Università Statale di Milano; dal 1965, all’Università di Roma. Nel 1971 diventò professore ordinario di geografia economica e dal 1978 al 1987 fu presidente della Società Geografica Italiana. Tra le sue opere, citiamo: La partecipazione delle colonie alla produzione delle materie prime, Istituto fascista dell’Africa Italiana, Milano, 1939, 2ª ed.; L’ambiente geografico e lo sviluppo economico nel Goriziano, Lucchi, Gorizia, 1933; L’Africa economica, Giuffrè, Milano, 1941; I fondamenti dell’integrazione economica europea: il Mercato Comune del Carbone e dell’Acciaio, Giuffrè, Milano, 1959.

Jean Thiriart, L’Europa fino a Vladivostok

Questo testo, uscito sul n. 9 di “Nationalisme et République” nel settembre 1992, trae origine dalla conferenza stampa che Jean Thiriart tenne a Mosca il 18 agosto di quel medesimo anno.

Interviste

Intervista a S. E. Ján Šoth, Ambasciatore della Repubblica Slovacca in Italia
Intervista a S. E. Péter Paczolay, Ambasciatore d’Ungheria in Italia
Intervista a Gábor Vona, Presidente del Movimento per un’Ungheria Migliore (Jobbik)

Recensioni

Kelly M. Greenhill, Weapons of Mass Migration. Forced Displacement, Coercion and Foreign Policy, Cornell University Press, Ithaca – London 2010 (Davide Ragnolini)

Archivio
Dottrina geopolitica – Geofilosofia – Il continente eurasiatico – Cina – Iran – Vicino Oriente – Nordafrica – America indiolatina

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FERMENTI LIBANESI

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C’è del marcio in Libano, e sia detto fuor di metafora. Non serviva la crisi dei rifiuti per dare una rappresentazione plastica della miscela putrescente di corruttela e immobilismo ben nota ai libanesi; tuttavia, l’emergenza ha innescato una mobilitazione dell’opinione pubblica contro un governo fantasma attraverso manifestazioni che, all’ombra dei cedri, non si vedevano dall’uccisione di Rafiq Hariri nel 2005.

Casus belli è stata la chiusura della più grande discarica del paese, alla periferia di Beirut, e la collaterale scadenza del contratto che affidava i servizi di nettezza urbana alla Sukleen, azienda controllata da amici del clan Hariri; e tutto ciò senza che il governo avesse pronta una soluzione alternativa. L’accumularsi dell‘immondizia per le strade della capitale ha, forse per la prima volta, costituito un disagio trasversale a classi e fazioni tale da superare la balcanizzazione sociopolitica fisiologica in Libano.

Ad accogliere e organizzare il malcontento popolare è stato il collettivo “You Stink”; originariamente formato da una dozzina di membri di comune estrazione borghese. Questo movimento, il cui nome rappresenta una duplice e trasparente allusione al puzzo che si solleva tanto dalle strade quanto dai palazzi del potere, è riuscito a radunare fino a 25000 persone in occasione di varie proteste, a partire dalla dimostrazione pacifica del 22 agosto scorso- a cui la polizia ha risposto con idranti, proiettili di gomma e gas lacrimogeni – e da quella della settimana successiva, degenerata in uno scontro violento con le forze dell’ordine che ha lasciato sul terreno un morto e 400 feriti. Il manifesto pubblicato da “YouStink” è perentorio nei quattro punti che lo compongono: dimissioni immediate del ministero dell’ambiente, inchiesta sulle responsabilità nella repressione violenta di cui sopra, soluzione alla crisi dei rifuti, elezioni.

Se nel frattempo, passando per periodiche manifestazioni di cui l’ultima il 14 dicembre, il problema più impellente, e repellente, pare avere trovato una soluzione temporanea con l’apertura di due discariche in altre località del paese (come temporanea è quasi ogni decisione faticosamente partorita dall’esecutivo), è l’ultimo punto del succinto manifesto a gettare una nuova luce su “YouStink”, connotandolo come un organismo a fini politici. Ci troviamo di fronte a “indignados” polemisti futuribili “podemisti” coronati dal successo elettorale, oppure a emuli di Gezy Park destinati a ripiombare nella penombra? Secondo Imad Salamy, professore di scienze politiche presso l’American Lebanese University, “il movimento non solleverà alcuna questione politica di peso, né può portare l’attuale governo alle dimissioni senza offrire un’alternativa. Per non mancare il proprio fine politico, deve essere tanto distruttivo quanto costruttivo”. Ma distruttivo di cosa?

Seppure non sia un’autocrazia come quelle rovesciate dalle cosiddette “Primavere arabe”, il Libano non si qualifica neppure per una democrazia compiuta e funzionante. Il semifallito Stato libanese si caratterizza piuttosto per una peculiare ibridazione di pratiche democratiche, distribuzione settaria del potere e tradizionali centri di detenzione dello stesso, mostrando sì, sullo sfondo di un contesto regionale a tinte mediamente fosche, maggiori concessioni a libertà, pluralismo, partecipazione popolare e iniziativa economica, ma allo stesso tempo soffrendo di istituzioni latitanti, elezioni più eccezione che norma, nepotismo radicato e corruzione, settarismo endemico e perdita del ruolo di faro economico e culturale del Mashreq a vantaggio del Golfo.

Qualche dato tratto dal “Global Competitiveness Index 2014-2015”, stilato dal “World Economic Forum”, basta a tratteggiare un quadro desolante: su 144 paesi presi in esame, il Libano si classifica 144° per fiducia nella classe politica, 143° per corruzione, 142° per pagamenti irregolari e tangenti, 138° per indipendenza degli organi giurisdizionali. A fronte dell’adesione alla “Convenzione ONU contro la corruzione”, quest’ultima assorbe ogni anno il 15% del PIL del paese, una quota considerevolissima che potrebbe andare a finanziare riforme, infrastrutture, aumenti salariali nel pubblico impiego. Il clima di sfiducia verso il governo è poi pienamente giustificato dall’incapacità di quest’ultimo sia di rispondere ai bisogni elementari della popolazione sia di superare le divisioni interne al parlamento, con la contrapposizione tra la coalizione 8 Marzo (nucleo composto dagli Hezbollah di Nasrallah e dai cristiani maroniti guidati dal generale Aoun, supportata dall’Iran, sostenitrice di Assad) e quella 14 Marzo (componente di un’alleanza sunnita con l’Arabia Saudita e con al centro il Movimento del Futuro guidato da Saad Hariri, figlio del defunto premier e a sua volta primo ministro dal 2009 al 2011). Risultato: stallo decisionale con il parlamento che dal 2009, anno delle ultime consultazioni, ha prolungato autonomamente il proprio mandato quadriennale fino al 2017 e, da maggio 2014, non è stato in grado di accordarsi su un nome per il presidente della Repubblica.

Costituzionalizzazione della distribuzione delle cariche pubbliche tra i rappresentati delle 18 confessioni religiose ufficialmente riconosciute e legittimazione indiretta di un nepotismo diffuso nelle sfere del potere (si vedano i clan Hariri e Jumblatt), nell’intera storia del Libano il sistema confessionale è oscillato tra la condizione di collante centripeto indispensabile all’unità della nazione e forza centrifuga che ha portato il paese sull’orlo dell’abisso durante la guerra civile. E appunto una guerra civile pericolosamente vicina quale quella siriana, divenuta nel corso del proprio dispiegarsi un conflitto dalle forti connotazioni settarie, sta esasperando questa divisione interna, i cui riflessi venefici si sono concretizzati con gli attentati e gli scontri intercorsi tra partigiani di Assad e sostenitori dei ribelli siriani a Tripoli e Beirut; come ben esemplificato dalle parole dell’ex-generale Elias Hanna, “Non puoi andare in Siria come Hezbollah, sciita e componente dell’asse iraniano, a uccidere sunniti (segnatamente il fronte ribelle di al-Nusra, affiliato di al-Qaida, nda) e vivere in Libano circondato dai sunniti medesimi”.

L’acuirsi del settarismo è però solo uno dei sintomi di inquietante somiglianza con i prodromi del conflitto che ha insanguinato il Libano tra il 1975 e il 1990, insieme al parallelo tra l’afflusso massiccio di profughi dalla Siria e l’egualmente consistente diaspora palestinese su cui l’esecutivo spesso riversa le responsabilità della propria paralisi (e ciò non del tutto immotivatamente, visto il disinteresse in merito da parte della comunità internazionale), a uno sviluppo geograficamente diseguale e compromesso da un’economia fortemente speculativa, al rischio, indotto dalla supremazia militare di Hezbollah, di una corsa a eserciti personali stile “falange”, favorita da un disarmo a metà che vede gli ex-capi milizia tramutatisi in leader politici ben saldi ai vertici del potere.

Il settarismo influisce prepotentemente anche sul programma di “YouStink” da cui siamo partiti. Se, infatti, la questione dei rifiuti tocca indifferentemente ricchi e poveri, sciiti e sunniti, drusi e maroniti, l’impegno sul piano politico-elettorale, che vede nel settarismo la propria ragion d’essere, non condurebbe forse all’implosione del movimento stesso? Per uscire da questo circolo vizioso, andrebbe trovata una risposta positiva alla domanda che Tarek Osman, giornalista e consigliere politico per il mondo arabo alla European Bank for Reconstruction and Development, ritiene cruciale e ineludibile nell’affrontare il caso Libano: lo Stato libanese può avere una base nazionale, piuttosto che settaria? Sulla base dei decenni passati, la risposta è no. Il Libano, quindi, sembrerebbe destinato alla frammentazione o al federalismo: la prima a creare una costellazione di piccoli stati a base settaria dalle economie troppo piccole o povere per essere attrattive, calata in un’area in perpetua ebollizione e con un rischio conseguentemente alto di ulteriori conflitti; il secondo, impossibile a causa dello squilibrio economico e infrastrutturale tra le varie regioni del paese, a sfociare in una frammentazione di fatto, se non formale, e all’impotenza dello Stato centrale.

Un tentativo di superamento delle divisioni è alla base della cristallizazione di un consenso attorno ala candidatura alla presidenza di Suleiman Frangieh, leader del movimento cristiano maronita „Marada“ affiliato a Hezbollah. Rivendicato da ISIS, l’attentato suicida del 12 novembre scorso in un quartiere meridionale di Beirut roccaforte del partito di Nasrallah ha costituito il catalizzatore che ha accelerato la ricerca di un accordo tra 8 e 14 marzo; un accordo, tuttavia, alquanto insolito, visto che Frangieh, già primo ministro, è amico d’infanzia e sostenitore di Basher al-Assad: qual è quindi la ratio del sostegno accordatogli da Saad Hariri, strenuo critico del regime di Damasco a cui, tra l’altro, attribuisce la responsabilità dell’assassinio del padre Rafiq nel 2005? Alla base ci sarebbe un principio di do ut des che vedrebbe l’affidamento della carica di primo ministro al leader sunnita di Movimento Futuro, al cui peso in parlamento nulla potrebbero i quattro seggi detenuti dalla compagine „Marada“ del futuribile presidente. Come dimostrato dalla storia, tuttavia, il destino del Libano si decide altrove, e in questo frangente la luce verde alla candidatura sarebbe arrivata anche da Arabia Saudita, Iran, Stati Uniti e Francia, poco inclini ad alimentare un ulteriore vespaio in un momento particolarmente turbolento a livello regionale.

L’incognita principale permane, però, all’interno. Con una polarizzazione confessionale esacerbata dalla guerra civile siriana, l’avvallo del vertice del blocco 14 marzo a una presidenza filosiriana non causerà l’implosione stessa delle alleanze interne, essendo l’opposizione a Damasco il nocciolo duro attorno a cui le stesse si erano coalizzate? E ciò, a sua volta, non provocherà una radicalizzazione sunnita potenzialmente distruttiva di un equilibrio interno sul filo del rasoio?

Appunto in questo quadro scoraggiante, il Libano avrebbe estremamente bisogno della trasversalità di interessi promossa da „You Stink“, antidoto a un immobilismo alimentato dai particolarismi. Nell’attesa di un nuovo presidente lungamente atteso, auspichiamo che la spinta innovativa della società civile non venga soffocata dallo spauracchio non così remoto di conflitti interni e di complicazioni internazionali endemici in un Medio Oriente in perenne ebollizione.

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LA TURCHIA CONTRO LA RUSSIA: UNA TRAPPOLA OCCIDENTALE

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Non sarà l’inizio della Terza Guerra Mondiale e nemmeno comprometterà definitivamente i rapporti fra Russia e Turchia ma l’abbattimento del caccia russo da parte dell’aviazione di Ankara segna un ulteriore passo azzardato della politica estera turca, in piena deriva atlantista.

Qualche considerazione a freddo porta a ritenere verosimile l’idea di una sorta di trappola fatta scattare deliberatamente in ambito NATO: la decisione di abbattere l’aereo militare – appartenente a un Paese, la Russia, impegnato in una campagna antiterrorismo ufficialmente condivisa dalla Turchia – è stata presa dai comandi militari turchi. Il capo di Stato Maggiore delle Forze Armate, Hulusi Akar, avrebbe avvertito – secondo una ricostruzione fatta dai media turchi – il Primo Ministro Davutoḡlu per una formale approvazione dell’abbattimento, sulla scorta delle severe “regole d’ingaggio” approvate nel 2012 in seguito all’abbattimento di un aereo militare turco in territorio siriano.

Sembra dubbio che Davutoḡlu avrebbe dato il suo assenso se obbiettivamente informato della vera situazione in atto; e i tentativi di Erdoḡan di un recupero di dialogo con Putin tradiscono un certo sconcerto e imbarazzo. Fatto sta che la ricostruzione diffusa dagli alti comandi militari appare quantomeno forzata: 10 avvertimenti ai due aerei russi fatti in cinque minuti ? Con uno sconfinamento effettivo di 17 secondi ? Un mistero della logica. Un fatto talmente grave (17 secondi !) da imporre l’eliminazione – con relativa probabile morte dei piloti – di aerei impegnati in una missione condivisa almeno formalmente, e in cui era comunque indiscutibile che l’obiettivo non fosse il territorio turco ?

Potrebbe forse essere utile ricordare come il generale Akar – nominato capo di Stato Maggiore lo scorso agosto su indicazione del Consiglio militare supremo – abbia fama di essere molto legato alla NATO e assai vicino anche agli ambienti militari statunitensi: una scelta di continuità nella tradizione filoatlantica delle Forze Armate turche, manifestatasi come è noto per decenni con continue interferenze nella vita politica, colpi di Stato inclusi.
Merita attenzione anche una voce – prontamente tacitata – proveniente da oltreoceano. Veterans Today, organo indipendente statunitense specializzato nella controinformazione, fornisce una chiave di lettura dei fatti piuttosto sorprendente: la decisione di Ankara di procedere all’abbattimento dell’aereo russo sarebbe stata preceduta da consultazioni intercorse con il senatore John McCain, attuale presidente della commissione senatoriale sulle Forze Armate statunitensi, che avrebbe garantito – in caso di confronto diretto con la Russia – il sostegno diretto del generale Philip Breedlove, comandante delle forze NATO in Europa.

Il ruolo giocato da McCain e Breedlove è noto: il primo è da anni impegnato nella strategia della tensione contro la Siria e nel sostegno armato ai “ribelli” di ogni tipo allo scopo di rovesciare il legittimo – ma d’autorità iscritto nell’Asse del Male – governo siriano. Veterans Today lo rappresenta come mentalmente instabile e come esponente di punta – insieme ad altri, come i rappresentanti repubblicani alle presidenziali dell’anno prossimo Ted Cruz e Rand Paul – di un movimento di estremisti evangelici, End Times.

Il secondo ha recentemente dichiarato, in piena campagna antiISIS, di “non capire quello che la Russia stia facendo in Siria: assistiamo con preoccupazione a questa operazione, come ad altre che continuano ad appoggiare il regime di Assad”, ed è lo stesso che ha pubblicamente invitato i Paesi occidentali a “non escludere” un intervento militare in Ucraina.

L’attacco dei media occidentali alla Federazione Russa è continuo: tutti hanno nei giorni scorsi ripreso la notizia – lanciata dal sedicente e completamente inaffidabile “Osservatorio siriano dei diritti umani” – del presunto bombardamento del mercato di Idlib, con conseguente asserita strage (“44 morti e decine di feriti”) di innocenti. Un episodio assolutamente incontrollabile che stupisce per la precisione del dato, mentre per i bombardamenti francesi su Raqqa, “avvolta in una palla di fuoco” secondo quanto si afferma, l’Osservatorio – in realtà organismo composto da un’unica persona, residente in Inghilterra – riferisce di decine di raid aerei ma non ha riscontro di “eventuali” vittime fra la popolazione!

Tutto questo peggiora ed esaspera il clima da “guerra franca” e stimola irresponsabilmente la campagna che il mondo occidentale – entità artificiale sovrappostasi all’ Europa – conduce nei confronti della Russia; la Turchia contro i suoi stessi interessi sembra accodarsi a tale operazione, e, al suo interno, la componente militare sembra nuovamente dominare quella politica nella gestione delle emergenze internazionali.

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INTERJÚ GYÖNGYÖSI MÁRTONNAL

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Az interjút az olasz „Eurasia. Rivista di studi geopolitici” című szemle igazgatója, Claudio Mutti, készítette a Jobbik Magyarországért Mozgalom országgyűlési képviselője

Eurasia – A Jobbik párt képezi a legfontosabb politikai erőt az Orbán vezetett kormánnyal szemben. Megmondaná-e, hogy mi a Jobbik pozíciója a külpolitikában és miben különbözik a kormány pozíciójával szemben?

Gyöngyösi Márton – A keleti nyitás továbbra is sarokköve a Jobbik külpolitikájának. Az elmúlt években zajló geopolitikai események nemhogy gyengítették volna, hanem épp ellenkezőleg, erősítették a keleti nyitás szükségességét. Nem véletlen, hogy a Fidesz kormány lenyúlta a keleti nyitást a Jobbik programjából Hangsúlyozni kell ugyanakkor, hogy a Fidesz inkább csak retorikai síkon vitt végbe valamiféle nyitást, valós eredményként inkább csak kétes korrupciós eseteket lehetne fesorolni. A Jobbik ezzel szemben nem jól hangzó szlogenként, vagy egy pár hónapos, eldobható politikai fogásként kezeli a keleti nyitást, hanem külpolitikai stratégiájának sarokköveként tekint arra. Emellett azonban az elmúlt évek eseményei azt is bizonyítják, hogy a szűkebb értelemben vett regionális együttműködésekre legalább akkora figyelmet kell fordítani, mint a globális, nagyhatalmi szereplőkre. Ilyen kezdeményezés lehet például az újra megerősödő Visegrádi együttműködés. Mindezt persze csakis lelkiismeretesen, több éves távlatokban gondolkozva lehet végrehajtani és nem szabad a célokat pillanatnyi politikai manővereknek alárendelni. Ez az, amit a Fidesz nem tud megtenni, a Jobbik azonban készen áll rá.

Eurasia – A történelem során Magyarország a nagyhatalmak kereszttüzébe került: nyugaton Ausztria-Németország, keleten Oroszország, délen Törökország. A Jobbik szerint, milyen funkciót kellene betölteni Magyarországnak a mai geopolitikai térségben? A földrajzi fekvésének megfelelően pedig melyek lennének a legmegfelelőbb szövetségek?

Gyöngyösi Márton – Magyarország ennek a három nagyhatalomnak az érdekszférájának a metszéspontjában található, és történelmileg sorsát leginkább ennek a három nagyhatalomnak a mozgása, kölcsönhatása befolyásolta. Ez így volt a múltban, így van most is, és minden valószínűség szerint így marad még egy ideig. Ez a három nagyhatalom a térségünkben, a térségünkért folytat küzdelmet más-más eszközökkel, és mivel nekünk kis országnak a gigászok harcába viszonylag kevés beleszólásunk van, arra kell figyelnünk, hogy érdekeink ebben a háromszögben a lehető legoptimálisabban jussanak érvényre. Ehhez szükséges, hogy ennek a három országnak a politikáját közelről figyeljük és a magyar érdekeknek megfelelően megtaláljuk közöttük azt a szűk mezsgyét, amely az ország gyarapodását szolgálhatja. Bethlen Gábor tud ebben nekünk útmutatásul szolgálni, aki az Oszmán és a Habsburg birodalmak szorítása között képes volt okos és előrelátó politikával megteremteni Erdélyország aranykorát, bölcs kompromisszumok elérésével. Ez persze nem jelenti azt, hogy távolabbi összefüggésekkel nem kell a magyar diplomáciának számolnia. Épp ellenkezőleg. A globalizáció korában, amikor a világ bármely pontján történő esemény közvetlenül kihathat egyes államokra, fontos, hogy ne korlátozzuk le a horizontunkat.

Magyarország mind észak–déli, mind kelet–nyugati irányban Európa közepének mondható, ebből kifolyólag egyfajta határtérséget képez, de ugyanakkor összekötő szereppel is bír a négy égtáj között. Ezt a „híd” szerepet kívánjuk a jövőben erősíteni. Szakítunk az egyoldalú euroatlantizmussal, a keleti nyitást szorgalmazzuk. A hitetlen liberalizmus iszlámellenessége helyett, mi a tradicionális vallások közötti béke álláspontját képviseljük, többek között e célt szolgálják azeri és török kapcsolataink is. A kelet–nyugati „hídra” merőlegesen szükségesnek tartjuk egy lengyel–magyar–horvát tengely létrehozását is, mellyel meg kívánjuk teremteni a közös érdekérvényesítés lehetőségét az Európai Uniót domináló nyugat-európai államokkal szemben. Az EU már igen messze került a „nemzetek Európája” koncepciótól és egy föderalisztikus unió képét vetíti előre, aminek további kiszolgálása veszélyt jelenthet hazánk szuverenitására (lásd: külföldiek immár szabadon vásárolhatnak magyar termőföldet).

Eurasia – A jáltai rendszer bukása után Magyarország részévé vált az Amerikai Egyesült Allamok által hegemonizált szövetségének. On szerint Magyarországnak ez a pozíciója megegyezik a magyar stratégiai érdekekkel?

Gyöngyösi Márton – Mára egyértelmű, hogy a kelet-közép-európai régió érdekei merőben eltérnek Nyugat-Európa érdekeitől. Hiába vagyunk ugyanannak a szövetségnek, az Európai Uniónak, a NATO-nak a tagjai, mindkét intézményben a nagyhatalmak geopolitikai érdekei dominálnak, melyek gyakran ellentétesek mind a nemzeti érdekeinkkel, mind a régiónk országainak érdekeivel. Egyértelmű, hogy akkor, amikor az Európai Unió tárgyal, mondjuk a transzatlanti kereskedelmi szerződésről az Egyesült Államokkal, akkor a nyugat-európai nagyhatalmak politikai és gazdasági érdekei érvényesülnek, a mi régiónk érdekeivel szöges ellentétben. A NATO legutóbbi lépései is, mint például a koncentrált katonai mozgósítás a keleti tagországokban, az Egyesült Államok geopolitikai céljait szolgálják, nem pedig a régiónk érdekeit. Regionális együttműködés révén ezeket a káros folyamatokat ellensúlyozni, vagy legalábbis enyhíteni, lassítani lehetne.

Eurasia – Szíjjártó külügyminiszter legutóbbi látogatása Izraelbe arra enged következtetni, hogy a budapesti kormány egyfajta szolidáritással bír a cionista rezsímmel. Milyen pozíciót foglal el a Jobbik ebben az ügyben?

Gyöngyösi Márton – A Jobbik álláspontja mindig is egyértelmű volt ebben a kérdésben. Nem fogadhatjuk el a radikális cionizmus követeléseit, melyek végső célja egy másik nemzet országának felszámolása. Álláspontunk szerint az ún. kétállami megoldás kell szorgalmazni, így tehát Izraelnek vissza kell vonulnia 1967-es, nemzetközileg elismert határai mögé. Így létrejöhet egy palesztin állam, de nem sérül Izrael államisághoz való joga sem. Meggyőződésünk, hogy egy ilyen rendezs a közel-keleti béke és stabilitás egyik alapvető feltétele.

Eurasia – Közel-Kelet és Eszak-Afrika destabilizációját követően Európát elárasztotta egy rendkívüli illegális migráns hullám. Ebben a drámai helyzetben Magyarország élvonalba került. On szerint milyen intézkedéseket kellene meghoznia Európának, hogy elkerülje a kovetkező év tavaszán újra megjelenő migráns áradat?

Gyöngyösi Márton – Sajnos ki kell mondani, hogy jelenleg a bevándorlási krízis kapcsán nem a migránsokkal van a legnagyobb probléma, hanem a rövidlátó és képmutató európai politikai mentalitásban, amely a nagy múltú civilizációnknak a jövõjét teszi kockára.
Amikor francia, német és osztrák politikusoknak a nyilatkozatait halljuk, az Európai Unióban domináns liberális véleményeket, melyek a sajtóban is visszaköszönnek, szinte reménytelennek látjuk Európa jövőjét. Azonban üdítő kontraszt Nyugat-Európával szemben az az álláspont, melyet a Kelet-Közép-Európa országai képviselnek ebben az ügyben.
A jelenlegi migrációs válság kapcsán Európában pont a válságnak az okaival nem szeretünk foglalkozni és szembenézni. Meggyõzõdésem, hogy a jelenlegi migrációnak az oka az elmúlt évtizedek elhibázott, erőszakosan megvalósított amerikai geopolitikája és az ebben szerepet játszó európai külpolitika.
Az európai határokat déli és keleti irányból fenyegetõ migrációs nyomás szinte kizárólag azokból az országokból érkezik, melyeket a nyugat az elmúlt években sikeresen destabilizáltt a Közel-Keleten, mint Szíria, Irak és Afganisztán. Nem szeretünk róla beszélni de az elhibázott nyugati geostratégiai törekvések miatt, az elmúlt években destabilizált Ukrajna is könnyen hasonló helyzethez vezethet.
Az európai szolidaritás, az egyéni- és az emberi jogok nagyon fontosak, de legalább ilyen fontos az, hogy egy ország saját hatáskörben eldönthesse, milyen társadalmi modell szerint rendezkedik be. Történelmi okokból érthetõ, ha a volt gyarmattartó nagyhatalmak min például Anglia, Hollandia, Belgium, Franciaország vagy olyan gazdasági nagyhatalmak, mint Németország a bevándorlás kérdéskörérõl másképpen gondolkodnak, mint egy a történeleme folyamán nem extenzív politikát folytató, más kelet-európai ország. Ugyanakkor le kell szögezni, hogy egy közös, minden európai államot átfogó stratégia a jelenlegi helyzetben sokkal szerencsésebb lenne, mint egyes tagállamok magányos “küzdelme”, hiszen az előrejelzések szerint a migrációs nyomás csak fokozódni fog a jövőben és csak közös erővel állíthatjuk majd meg.
Ugyanakkor az is meggyőződésünk, hogy ez a közös stratégia nem alapulhat a bevándorlók befogadásán. Egyszerűen azért, mert Európa a hangoztatott szolidaritás ellenére nincs olyan demográfiai, gazdasági, társadalmi és lelki állapotban, hogy bevándorlók százezreit, sõt elõre láthatólag millióit zökkenésmentesen integrálja.
Ami Magyarországot illeti: amíg nagy számban léteznek olyan kisebbségek, amelyek bár több generációja velünk élnek, ugyanaz a nyelvük és állampolgárságuk, mint a többségi társadalomé, és mégsem sikerült még őket integrálni, amíg egy ilyen honfitársunk is van, addig nem tudjuk befogadni a távolról érkezett, más kultúrával, vallással és identitással rendelkező embereket. Az egészségügyi és biztonsági kockázatokról pedig még nem is beszéltünk. Ezért nem tehetünk mást, minthogy megerősítjük a magyar határvédelmet, pl. a határőrség visszaállításával. Nem fogadhatjuk el a kvótarendszert sem, hiszen ez mindössze az elhibázott nyugati politika “eredményét” terítené szét a kontinensen, olyan államokat is bevonva egy problémába, melyeket az nem érint. Azokat, akik jogtalanul érkeztek az Európai Unióba és nem jogosultak menekültstátuszra, nem szétosztani, hanem kitoloncolni kell.
Röviden összefoglalva tehát: közös európai politika kell, de ennek az európai értékek védelmén kell alapulnia. A legfontosabb pedig, hogy a problémát gyökerénél kezeljük és a nyugati hatalmak átértékeljék azt a külpolitikai stratégiát, melynek nyomán rendszeresen és durván beavatkoztak közel-keleti államok belügyeibe, destabilizálva azokat, kiváltva ezzel a jelenlegi migrációs hullámot.

Eurasia – Miben járulhat hozzá Magyarország egy multipoláris rendszerbe való átmenethez ?

Gyöngyösi Márton – Az elkövetkező időszakban Közép-Európa államainak felértékelődése várható és nem kizárt, hogy mind gazdasági, mind pedig politikai téren térségünk válik Európa egyik motorjává. Be kell ismernünk, hogy a mi külpolitikai, gazdasági érdekeink egy multipoláris világ létrejöttével esnek egybe, ahol mind nyugat, mind pedig kelet felé partnereket találhatunk. Magyarországnak, mint Közép-Európa egyik meghatározó államának nem szabad pusztán követnie az eseményeket, de lehetőség szerint minél aktvabban alakítani is kell azokat, összhangban a magyar nemzeti érdekekkel. Számunkra Németország, Oroszország és Törökország kiemelt partner kell, hogy legyen. Azt hiszem, hogy azzal, hogy ebben a háromszögben három nagyhatalommal baráti kapcsolatokat építünk ki, esetleg közvetítünk köztük és más államok között is, hatékonyan hozzájárulhatunk egy kiegyensúlyozottabb világrend kiépüléséhez.

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TURCHIA, RUSSIA ED EUROPA: INCERTEZZA E MUTAMENTI NEL CONTESTO GLOBALE

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L’Isis colpisce con efferati attacchi terroristici la Francia e minaccia l’Occidente intero alla vigilia del Giubileo. La Turchia abbatte un caccia russo al confine con la Siria e, pochi giorni dopo, un accordo tra Ankara e Bruxelles prevede il versamento di 3 miliardi di euro al governo turco per la gestione dei profughi siriani ed iracheni. Parte dell’accordo è la velocizzazione del processo di ingresso della Turchia nell’Unione Europea, mentre le tensioni tra Ankara e Mosca sono ormai entrate nel vortice di un crescendo. A fare da sfondo allo scenario di tensione, una sempre più fitta massa di migranti: il prodotto malato di una situazione causata dagli interessi economici, egemonici e territoriali delle Potenze occidentali e delle loro multinazionali.

Un epilogo globale
Stragi perpetrate dai terroristi dell’Isis a Parigi, rapporti tra Ankara e Mosca in un vortice ascensionale di tensione; l’equilibrio della bilancia internazionale, da un approccio euroasiatico ormai ritenuto consolidato, verso un cambio di rotta rappresentato, piuttosto, dal bisogno di stringere i rapporti con la Turchia. Che agli Stati Uniti la situazione sia sfuggita di mano è ormai una certezza. Quando negli ormai lontani anni Settanta finanziavano Al-Qaida in chiave antisovietica, “per liberare l’Afghanistan”, chi mai avrebbe pensato che quel movimento sarebbe diventato il gruppo terroristico autore del disastro delle Due Torri? Sicuramente molto tempo è passato da allora e nessuno avrebbe mai immaginato che il terrorismo sarebbe giunto alla creazione di un suo Stato. “In natura nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma”. Oggi Al-Qaida non esiste più, ma abbiamo il sedicente e cosiddetto “Stato Islamico”, che, sebbene non riconosciuto e legittimato a livello internazionale, è pur sempre uno Stato territoriale, situato tra Siria ed Iraq, con le sue leggi, il suo esercito ed un proprio sistema organizzativo. Su questo sfondo drammatico emergono nuovi colpi di scena che lasciano intendere uno spostamento del fulcro di interesse dalla Russia verso attori fino ad oggi rimasti ai margini dello scacchiere geopolitico.

Prospettive future del disegno presidenzialista di Erdogan
Il 1 Novembre scorso l’AKP, il partito “Giustizia e Sviluppo” di Recep Tayyip Erdogan, ha raggiunto la maggioranza assoluta attestandosi alla guida della Turchia. In quanto capo della Repubblica turca, Erdogan sarebbe dovuto restare al di sopra dei giochi politici governativi, ma risulta essere, de facto, il reale decisore nel partito “Giustizia e Sviluppo”. Le mire interne di Erdogan riguardano, da sempre, una svolta in senso presidenzialista, con l’aumento di potere personale che da questo evento deriverebbe. Già da tempo, tuttavia, c’è chi ha parlato di Erdogan come di un sultano, per le derive autoritarie che il suo modus operandi presenta. Alle precedenti elezioni, quelle di Giugno, gli oppositori appartenenti all’Hdp, guidati da Demirtaş, si erano presentati come una vera e propria forza intenzionata contrastare il partito “Giustizia e Sviluppo”. Sebbene guardi alla politica estera col preciso intento di entrare nell’Unione Europea, per rafforzarsi internamente e sbaragliare la concorrenza politica, Erdogan ha ricercato l’appoggio dei nazionalisti turchi accentuando le sue derive anticurde. Questo approccio tattico, unito alla soppressione della stampa, ai sospetti brogli elettorali e ad una sospettata collusione con l’Isis, hanno permesso al capo effettivo dell’Akp di recuperare terreno, presentandosi come l’unico antidoto in grado di guarire e stabilizzare il Paese.

Già ad agosto Demirtaş, prima del presidente russo Vladimir Putin, aveva accusato Erdogan di collaborare in segreto con i terroristi dell’Isis. Quanto ciò sia vero, benché i sospetti siano numerosi, è da dimostrare. Sta di fatto che Erdogan si è presentato al popolo come l’unica cura possibile al virus dilagante del caos sociale e della conseguente arretratezza economica. La mossa si è rivelata vincente. La strategia dell’autore dell’Arte della guerra, Sun Tzu, è divenuta una costante dell’approccio politico di Erdogan. “Tieniti gli amici vicini e i tuoi nemici ancora più vicini” (…) “Ogni guerra si fonda sull’inganno”. Erdogan si è infatti assicurato, al contempo, sia la simpatia dei nazionalisti, osteggiando i Curdi, sia una tregua tattica attraverso un accordo con il partito dei separatisti del Kurdistan, il Pkk. Il baratto è stato da subito chiaro: presidenzialismo in cambio di autonomie territoriali.

Nonostante questo progetto abbia dovuto fare i conti con le nuove tensioni, che hanno ancora una volta polarizzato gli equilibri di Ankara, la sorte sembra stare dalla parte di Erdogan e del suo partito. L’assassinio di due militari turchi ad opera di membri del Pkk ha fatto saltare l’accordo chiave della svolta verso il sultanato democratico di stampo presidenzialista propugnato da Erdogan.

Tuttavia la ripresa della lira turca, a ritmi mai registrati nella storia del Paese, è coincisa proprio con il giorno della vittoria dell’Akp, attestandosi a 2,7 sul dollaro americano. Questo segnale di decisa ripresa sta soddisfacendo il bisogno di stabilità interna della Turchia e viene confermato dalla perentoria inclinazione europeista di Erdogan.

Gl’interessi di Erdogan in Siria
Quell’intesa che si è vista sfumare, nell’orbita della politica interna, è stata perseguita da una geniale strategia in politica estera. Nell’approccio tattico di Erdogan, infatti, rientra anche la cautela nei confronti dello “Stato islamico”, nella quale molti attori dello scenario internazionale hanno visto l’indizio di un’alleanza. Ancora una volta entra in gioco una chiara applicazione dei principi di Sun-Tzu, dal momento che, pur rappresentando lo “Stato Islamico” una minaccia reale anche per Ankara, per questa non si è ancora presentato il momento opportuno per combatterlo.

L’agenzia di intelligence Stratfor ha opinato che l’atteggiamento cauto del governo turco nei confronti dell’Isis sarebbe da attribuirsi ad una primaria esigenza di stabilità geopolitica nel Vicino Oriente, onde evitare che le fratture politiche, etniche e religiose si aggravino nel futuro. La geopolitica del Vicino Oriente vede la Turchia coinvolta nel confronto perenne tra interessi socio-culturali contrapposti di Curdi, Arabi, Assiri, Turkmeni.
Il pericolo di un imminente crescendo conflittuale tra Iran ed Arabia Saudita rischia di risucchiare la Turchia nel vortice della guerra. Ankara intende inserire la guerra allo “Stato Islamico” nell’ampiezza di un contesto di securizzazione e di avvedute politiche regionali. Secondo le recenti analisi del Washington Institute la Turchia di Erdogan ha tre obiettivi chiave in Siria: la caduta del regime di Al-Assad, ragion per cui la Turchia sostiene i ribelli siriani; il contenimento dell’influenza curda, per gestire da una posizione di forza le trattative di tregua con il partito indipendentista Pkk; infine, limitare il flusso di profughi in Turchia. Aspetto cruciale da tenere in conto è che molti dei profughi diretti in Turchia sono proprio di etnia curda e alimentano le tensioni con il governo di Ankara destabilizzando ancor di più il Paese. Fare in modo che l’influenza di questi migranti curdi sia ridotta al minimo significherebbe limitare per il Pkk un vantaggio ed un sostegno notevoli.

L’aspetto fondamentale e complesso da analizzare resta quindi quello legato alle motivazioni che hanno spinto Ankara ad agevolare il passaggio dei Peshmerga curdo-iracheni sul territorio turco, in difesa di Kobane. Quest’ultima è una città a nord della Siria, appartenente al Kurdistan siriano e agognata da mesi dalle forze dell’Isis. Essendo i Curdi sparsi per il Vicino Oriente, quelli dell’ala irachena intendono andare in soccorso delle forze curde siriane per contrastare l’Isis. Per fare ciò converrebbe loro passare attraverso la Turchia per poi scendere direttamente su Kobane. Agevolare questa traversata significherebbe per Erdogan evitare che a nord della Siria si formi un solido governo antiturco capeggiato dal Pkk e dall’altro partito curdo antiturco Pyd (Partito Siriano dei Lavoratori Curdi). Il partito del Kurdistan iracheno, il Pdk (Partito Democratico del Kurdistan in Iraq), è alleato della Turchia e ha trovato un intesa con il Pkk e il Pyd solo in chiave anti Isis, dato il comune interesse della causa curda nella regione di Kobane. Sostenere la difesa di Kobane, permettendo ai Curdi iracheni di passare per la Turchia, rappresenta per Erdogan la chiave di volta per la tregua con i Curdi del Pkk, che in questo caso si vedrebbero destabilizzati dal favore del Pdk per Ankara. Essere il motivo della vittoria della causa curda in Siria, tramite il sostegno ai Peshmerga iracheni, metterebbe Erdogan in una posizione di favore nel rapporto di forza con Pkk, che si troverebbe costretto all’intesa con il Presidente turco e in una posizione di debolezza all’interno della Turchia stessa.

La tensione tra Ankara e Mosca, le posizioni dell’Occidente e il futuro dell’Unione Eurasiatica
Il 24 Novembre 2015 un caccia russo Sukhoi-24 viene abbattuto da due F-16 turchi di Ankara. La motivazione ufficiale turca è stata la violazione dello spazio aereo da parte dei russi e la mancata risposta del loro pilota agli avvertimenti che intimavano il cambio di rotta. Putin ha parlato di “grave pugnalata alle spalle” e, di quella che era una proficua alleanza commerciale e politica, non resta ormai che un ricordo.
Sembrerebbe una coincidenza ma, nei fatti, la posizione russa cozza pesantemente con gli interessi di Erdogan in Siria. Prima di tutto Putin appoggia il governo di Assad, per cui la determinazione di neutralizzare la minaccia dell’Isis ha rappresentato un’occasione per bombardare anche i siti dei ribelli “moderati”. Anche se esiste una coalizione anti Isis, Mosca ha voluto agire per conto suo, concentrando i bombardamenti non solo sugli avamposti Isis, quanto piuttosto sulle regioni dove i ribelli anti Assad erano concentrati.

Il passaggio del caccia russo sulla Siria era una chiara minaccia ai disegni strategici di Erdogan. Il governo russo ha accusato Ankara di fare affari con i terroristi dell’Isis, ma quello che va sottolineato è l’interesse della Turchia nel controllare direttamente gli equilibri in Siria. Il pericolo che il continuo invio di caccia russi in Siria fosse rivolto a dare sostegno ai ribelli anti Assad e potesse, in qualche modo, interferire con il tacito accordo tra Erdogan e i Peshmerga curdi iracheni, è stato tale da giustificare il rischio derivante da un incidente diplomatico tra i due Paesi. Non sembra casuale, dunque l’abbattimento del caccia russo in un momento in cui un’imposizione degli interessi contrastanti russi avrebbe potuto mandare a monte il gioco di equilibri architettato da Ankara.

Gli Stati Uniti, dal canto loro, non hanno perso l’occasione per appoggiare la causa turca: “il Governo turco ha pieno diritto di difendere i propri confini”, ha detto Obama. In questo senso gli interessi Usa coincidono perfettamente con gli interessi della Turchia in chiave antisiriana e antirussa. Questo scenario, unito al bisogno europeo di arginare l’immigrazione, fenomeno ormai fuori controllo, ha dato alla Turchia un enorme vantaggio in termini negoziali, rappresentato dall’appoggio statunitense e dall’accelerazione della svolta europeista.

Cosa ci guadagna l’Europa. Il ruolo di Mosca e Washington ed il potere contrattuale di Ankara.
Se internamente Erdogan ha giocato d’astuzia, oltre che sporco, attestandosi alla guida del Paese, in politica estera sta cercando di mercanteggiare con una moneta ugualmente molto preziosa: la sicurezza. Quello che chiede il popolo turco è una stabilità a 360 gradi, che sia economica e sociale; quello che chiede l’Europa intera è di fatto un controllo sull’immigrazione. Le frotte di migranti, unite alla minaccia del terrorismo, stanno di fatto diventando un mezzo di scambio vero e proprio per la causa europeista turca.

L’enorme potere che Erdogan esercita sull’Unione Europea è testimoniato da un accordo storico siglato il 29 Novembre 2015: un vertice a Bruxelles di 3 miliardi di euro tra Ue e Turchia con lo scopo di “bloccare il flusso dei rifugiati verso l’Europa”. Oltre ai 3 miliardi, da versare ad Ankara perché investa nell’ammodernamento del Paese, l’accordo prevede la liberalizzazione di migliaia di visti d’ingresso per i cittadini turchi verso l’Europa. Il fenomeno è stato di enorme impatto, soprattutto per il futuro di quello che è stato, fino ad oggi, il tanto discusso progetto di Unione Eurasiatica. La tensione tra Russia e Turchia pone i due Paesi agli antipodi; il bisogno europeo di arginare la minaccia terroristica e controllare l’immigrazione selvaggia trascinano il Vecchio Continente nelle braccia di Ankara, allontanandolo automaticamente dalla propria sfera di interessi della nella strategia internazionale.

Angela Merkel, nell’ultimo anno, ha rappresentato una posizione cuscinetto nella questione delle sanzioni alla Russia. Gli interessi commerciali ed energetici di Berlino hanno lasciato sperare, fino all’ultimo, che le sanzioni ai danni di Mosca potessero trovare una rapida soluzione. Oggi la stessa Merkel saluta il vertice di Bruxelles tra UE e Turchia come una “svolta storica”. La merce di scambio di Ankara è dunque stata più decisiva, stando a quanto i fatti dimostrano, rispetto a quella del gas russo.

In questo scenario gli Stati Uniti vedono comunque ridimensionato il loro ruolo di egemone mondiale e si trovano costretti, di volta in volta, ad assecondare quel Paese che, più di un altro, può favorire il mantenimento della loro influenza nel Vecchio Continente. Fino a poco fa si erano visti costretti ad assecondare, loro malgrado, la posizione tedesca favorevole ad una linea più morbida nei confronti della Russia. L’impopolarità delle sanzioni rischiava di relegare la potenza statunitense ai margini della politica internazionale e ad una loro significativa perdita di legittimità. L’effetto delle sanzioni alla Russia, in occasione della crisi ucraina, ha penalizzato infatti gli Stati europei, prima che la Russia. In questi giorni si è assistito ad un cambio di rotta dell’Europa intera, questa volta per interessi più legati alla sicurezza, con il risultato che a condurre il gioco non è stata Washington, ma Ankara.

Conclusioni
Negli anni Novanta, sulle macerie del muro di Berlino e sui resti della smembrata Unione Sovietica, due teorie geopolitiche si contrapponevano nei talk show e sulle testate giornalistiche di tutto il mondo. Francis Fukuyama, con la “Fine della Storia”, aveva profilato un futuro nel quale l’unico attore globale sarebbe stato rappresentato dal ruolo egemone degli Stati Uniti, trainato dalla cultura e dall’economia liberale d’Occidente. L’anno dopo, Samuel Philip Huntington scrisse un articolo sul Foreign Affairs per confutare tale tesi. Huntington prevedeva l’esplosione di contrapposti interessi sociali, culturali ed economici come conseguenza del crollo dei due blocchi. Là dove uno aveva visto prevalere definitivamente una visione ideologica sull’altra, l’altro vedeva la fine di entrambe le realtà a vantaggio di un confronto tra civiltà, contrapposte ed incompatibili, come risultato del vuoto lasciato dai due colossi americano e sovietico.

Quello che la Storia ha decretato è stato sì un ridimensionamento del potere degli Usa, ma anche un emergere di nuovi attori dalle grammatiche nettamente differenti rispetto alle logiche degli Stati moderni. Fukuyama aveva previsto che l’ordine mondiale si sarebbe polarizzato attorno ad entità parastatali, facenti capo a multinazionali e gruppi terroristici. Dinnanzi a questa situazione si sta come un pianeta nell’orbita gravitazionale di molteplici, multiformi e variegati satelliti. L’agire degli Stati, a livello internazionale, è conseguenza diretta degli interessi che tali gruppi di pressione muovono sugli equilibri mondiali. Nel nome di ideologie confessionali esasperate, i gruppi terroristici perseguono interessi economici ed egemonici ben precisi a vantaggio ora di uno Stato, ora di un altro. Le multinazionali, nell’inseguimento sconsiderato del profitto, hanno creato negli anni sacche di povertà presso vari popoli del mondo, che ora si stanno riversando oltre i confini degli Stati più ricchi per chiedere parte di quel benessere che finora è stato loro negato.

In questo contesto l’unica certezza risiede nel caos, mentre la Russia ha colto l’occasione di Jevromaidan per riproporsi sullo scenario geopolitico con una rinnovata energia di grande potenza.
La recente posizione favorevole nella quale versa la Turchia, unita agli interessi che legano Ankara all’Europa, dividendola al contempo da Mosca, potrebbe porre in discussione, ancora una volta, quelli che saranno gli sviluppi futuri in merito al ruolo geopolitico della Russia. Se nell’ultimo anno sembrava ormai consolidata la ripresa di Mosca, e certa la sua guida alla testa di un ordine eurasiatico, oggi il vertice UE-Turchia ha rimesso tutto in discussione.

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CHE COSA STA SUCCEDENDO NEL MONDO?

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Il crollo del sistema dei Paesi Socialisti dell’Est europeo e, in rapida successione, dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, secondo numerosi studiosi imperialisti come Fukuyama, avrebbe dovuto chiudere la fase conflittuale della storia umana. Aprire un’era di disarmo, di pace, sotto la tutela onnipresente dell’America vittoriosa e nel quadro della globalizzazione liberista. I più mistici sostenevano che si stava passando all’ “Età dell’Acquario”, un’epoca di armonia in tutto il genere umano.
Ebbene, proprio da quel momento iniziò un crescendo continuo di tensioni internazionali, guerre atroci, conflitti, atti terroristici di dimensioni sempre più spaventose, violenze barbariche, massacri di massa; una situazione che non si vedeva dai tempi della II Guerra Mondiale. Sino al punto attuale, maturato fra il 2014 e il 2015, in cui conflitti feroci e cruenti si estendono dall’Ucraina al Vicino Oriente, dalla Libia all’intera Africa subsahariana sino alla punta estrema della Somalia, paese in guerra civile permanente e in stato di disgregazione sin dal 1990, tanto è vero che è stato oggetto di una delle prime operazioni di “pace” sotto egida ONU, nel 1993, forse la più fallimentare. Gli imperialisti, o se si tiene alle forme, l’ONU, ha ritirato in fretta le truppe, lasciando il paese più devastato di prima e soprattutto ancor più denso di infezioni integraliste settarie. Oggi il corno d’Africa è la base operativa della pirateria, come la Malesia ai tempi di Sandokan.
Con questo riferimento alla Somalia, facciamo notare che le guerre guerreggiate iniziarono subito dopo il crollo del confine di Stato fra RFT e RDT, meglio noto come “Muro di Berlino”, e in un vasto arco planetario: le guerre balcaniche nella ex Jugoslavia, fra il 1991 e il terribile 1999, la prima Guerra del Golfo del 1991, e il successivo intervento in Somalia. In successione si aprì, dopo i fatti delle Torri Gemelle, quella che può oggi essere considerata la “prima guerra al terrorismo islamista”; la seconda ben più cruenta e pericolosa è quella in atto oggi, iniziatasi in pratica nel 2013 con l’apparizione “improvvisa” del “Califfato”.
Non tutti i dirigenti della sinistra comunista, all’inizio di questa nuova fase politica, furono così miopi o ideologizzati da non vedere le nuove contraddizioni che rischiavano di aprirsi con la prima guerra del Golfo, che ai più sembrò una passeggiata nel deserto contro il nuovo Hitler di turno, Saddam Hussein. Proprio nei giorni in cui si decideva l’intervento, nella sala del club “Turati” di Torino tenne sul tema una conferenza Lucio Libertini, ex PSIUP, ex PCI, in quel periodo uno dei protagonisti della nascita di Rifondazione Comunista. La sala era semivuota – segno dei tempi – e in questo triste vuoto spiccava la presenza dell’arcinoto ex ordinovista Salvatore Francia; e nessuno lo minacciò – altro segno di tempi che avrebbero potuto velocemente cambiare.
Libertini fece una lucida analisi della situazione e a conclusione del discorso disse chiaramente che una eventuale guerra contro l’Iraq, a prescindere dalla malvagità presunta o reale di Saddam Hussein e della questione del Kuwait, sarebbe stata vissuta dalle masse arabe e dal resto del mondo musulmano come un attacco dell’Occidente. La reazione avrebbe facilmente potuto essere una spirale terroristica internazionale di dimensioni mai viste sino a quel momento. Libertini sviluppò un chiaro sillogismo apodittico aristotelico: i popoli poveri, se attaccati da superpotenze tecnologiche, possono rispondere solo con la guerriglia e con atti di terrorismo. Nel nostro caso, non essendoci ancora territori occupati, come il Vietnam, in cui organizzare la guerra partigiana, la reazione sarebbe consistita in atti terroristici in tutti i paesi occidentali e alleati dell’Occidente.
Libertini fu inascoltato profeta, se è vero – come un tempo scriveva anche “Repubblica” – che fu proprio dopo l’attacco del 1991 all’Iraq che Bin Laden decise di cominciare la guerra all’America, vedendola ormai come nemica spietata del mondo arabo e dell’Islam. Prescindiamo dal fatto che fosse un agente della Cia, magari manovrato per avviare con Al Qaeda un progetto geopolitico ben diverso dalle sue finalità soggettive, i cui contorni forse gli sfuggivano, o pensava di ritorcerli a suo favore. Nella storia i complotti sono all’ordine del giorno, ma non esistono mai marionette che si fanno manovrare passivamente. Esistono personalità, organizzazioni che si lasciano manovrare, pensando che sia una tattica per realizzare disegni politici diversi da quelli dei loro capi palesi e occulti.
Pensiamo solo alla triste storia del neofascismo italiano, pieno di personaggi che hanno cercato e ottenuto appoggi istituzionali contro il “comunismo”, pensando di essere loro a usare la Cia per conquistare il potere e non la Cia a usare loro salvo poi scaricarli. Questa dialettica fra “manovratori” e “manovrati” la troviamo ad ogni livello e ovunque nel processo storico universale. Mussolini – grandissimo tattico – non si fece portatore dei più retrivi interessi capitalistici e agrari, riuscendo poi, con una serie di virate “a destra”, “a sinistra” e poi di nuovo “a destra”, a non farsi liquidare, ma a stabilizzarsi al potere per un ventennio?
Queste riflessioni servono a meglio farci capire dal lettore più “complottista”; a noi, come penso a Lucio Libertini, non interessa se il capo fosse sul libro paga della Cia, consapevole di lavorare per il “nemico”. Il problema era ed è che nel profondo delle masse arabe e musulmane di tutto il mondo, si stava costruendo la rappresentazione dell’Occidente e dell’America come il nuovo “grande Satana”, il nemico da colpire ovunque e con qualsiasi mezzo a disposizione. L’oggettività delle vicende politiche crea lo sfondo soggettivo e psicologico per accendere e radicalizzare le coscienze in funzione bellica. Per essere più chiari: per far affluire in Al Qaeda e poi in altre formazioni più pericolose centinaia e migliaia di militanti, sempre più determinati a compiere qualsiasi attentato, anche a costo di mettere a repentaglio la propria vita.
Sarebbe stato proprio il momento per dire “uomo avvisato mezzo salvato”, ma in sala c’eravamo solo noi, Salvatore e un gruppetto sparuto di comunisti. L’avvertimento di un uomo della statura di Lucio Libertini, che ha attraversato da protagonista tutta la storia della sinistra di classe italiana del dopoguerra, passò come un getto d’acqua sulle rocce. Oltretutto sarebbe anche stato facile capire che una guerriglia religiosa in nome dell’Islam sarebbe stata condotta dai militanti come una “guerra santa”, e quindi sarebbe stata ancor più pericolosa del tradizionale terrorismo laico, anarchico, mazziniano ecc., che raramente utilizzava attentatori suicidi.
Noi non siamo teologi e meno che mai esegeti dell’Islam, ma leggiamo nella “Sura II” del Corano “Fate la guerra, per la causa di Dio, a coloro che vi fanno guerra ma non siate aggressori: Iddio non ama gli aggressori. […] Se, però la smettono, allora, allora Dio è perdonatore e misericordioso. – Combatteteli, dunque, finché non vi sia più sovversione. […] Se la smettono non vi sia ostilità che contro gli iniqui. […] Chi vi aggredisce, aggreditelo […]”. È vero che non si può ridurre tutto l’Islam alla “guerra santa”, come tendono a fare salafiti e wahhabiti, legati alla casa dei Saud, cioè all’Arabia Saudita e seguaci di un’eterodossia che, non a caso sempre più diffusa a livello planetario, ispira il terrorismo settario. La stessa nozione di “guerra santa”, secondo la studiosa Virginia Vacca, va intesa come una guerra “interiore che ogni credente è chiamato a compiere contro il politeista che si cela nella sua anima e gli impedisce di ritornare al cuore, il Tempio sacro del suo essere, ‘luogo’ della Presenza divina”; “questo il senso vero del jihàd”.
Gli atti propriamente fisici, guerreggiati, ne sono l’aspetto esteriore, che peraltro – come si può leggere chiaramente nei frammenti citati – si giustificano solo e unicamente in chiave difensiva. Forse la Francia, se ritirasse le proprie truppe dal Mali, non avrebbe più da lamentare attentati terroristici. Diciamo anche che la questione degli “islamisti” sarebbe bene che venisse risolta direttamente dai cristiani, oggetto di persecuzione, e dalle milizie nazionali. Del resto non è quello che avviene in Somalia dal 1993, salvo una sporadica presenza dell’esercito “cristiano” etiope? Molto comodo esternare da San Pietro, ad ogni festa comandata, “facendo l’occhiolino” malizioso all’Alleanza atlantica perché vada a salvare i cristiani nel mondo!
Ritornando al punto di partenza, cioè al sentimento delle masse islamiche dopo il 1991, è chiaro i giovani musulmani, leggendo questi versetti senza un adeguato approfondimento spirituale, possono facilmente gettarsi nelle mani di Al Qaeda e poi del “Califfato”, convinti di guadagnarsi il Paradiso facendosi saltare in aria in mezzo ad una discoteca di Parigi. Ecco la vera Kernfrage lucidamente compresa da Libertini, che avrebbe dovuto far riflettere ogni persona di buon senso! Cessare ogni ulteriore provocazione e concentrarsi sulla soluzione reale del problema dei problemi che infiamma da sempre il mondo musulmano: il problema palestinese!!!

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La “prima guerra al terrorismo” – di cui fu protagonista assoluto, almeno stando alle apparenze massmediatiche, il Presidente Bush junior – si estrinsecò nel catastrofico intervento in Afghanistan delle Nazioni Unite contro i Talebani, e l’anno successivo nella seconda guerra del Golfo, che portò al crollo del regime di Saddam Hussein; di lì ebbe origine la dissoluzione dello Stato iracheno e degli equilibri nella regione, le cui conseguenze più tragiche stanno emergendo proprio in questi ultimi quattro anni, con la sanguinosa guerra civile in Siria e l’affermazione “misteriosa”, “improvvisa” del sedicente “Califfato”.
Da rilevare poi che la situazione in Afghanistan, nonostante quattordici anni di guerra e il dispiegamento di enormi risorse e di un vasto apparato militare multinazionale, è tutt’altro che stabilizzata: i Talebani continuano a controllare quasi tutto il paese e non attendono altro che il ritiro delle truppe imperialiste per riprendere il potere a Kabul. Se si riflette bene, per l’America e i suoi satelliti si tratta di una sconfitta ben più grave di quella del Vietnam. In Afghanistan non devono affrontare un esercito organizzato come quello vietnamita, i Talebani non sono guidati dal Generale Giap, né la guerra subisce le limitazioni strategiche della guerra fredda, che impedivano alle truppe americane di entrare nel Nord Vietnam per bloccare il retroterra logistico della guerriglia vietcong al sud.
In pratica, almeno sino al 2008, cioè prima che riemergesse come contraltare la potenza russa, gli americani avrebbero persino potuto usare l’arma atomica per creare una “fascia di sicurezza” alla frontiera con il Pakistan. Avrebbero così realizzato a cinquant’anni di distanza i sogni di Mac Arthur, che nel 1953 la voleva ai confini fra Cina e Corea del Nord – tanto che il Presidente Truman dovette rimuoverlo d’autorità per evitare ulteriori problemi con l’Unione Sovietica e la Cina; e l’avrebbero potuto fare con l’appoggio dei media e di un’opinione pubblica internazionale plagiata e passiva, ossia in una situazione ben diversa da quella del Vietnam. Eppure nulla! Rastrellamenti, bombardamenti, campi di concentramento (chissà se fra un secolo si potrà fare un “giorno della memoria” anche su questi?), viagra regalato ai capi tribù per conquistarne il consenso, soldi a palate regalati ai collaborazionisti di Kabul, veli strappati alle donne per emanciparle, e la situazione bellica continua a peggiorare di anno in anno. Infatti il serafico Obama aveva promesso di ritirare le truppe entro il 2015; ma, visti i pericoli di una “Saigon 2” in diretta, ne ha riconfermato la presenza. Anche l’Italia naturalmente rimane in terra afghana: i servi dei servi non si smentiscono mai, ma seguono sempre gli ordini del padrone di turno. È di questi giorni infatti la notizia a Mosul saranno inviati 450 dall’Italia, unico fra i paesi occidentali a rischiare la pelle dei propri soldati in un teatro bellico pericolosissimo.
Già da questi sommari riferimenti dovrebbe risultare chiaro il nesso fra la caduta del cosiddetto “comunismo” e la destabilizzazione delle relazioni internazionali: non più trattenute dalla presenza dell’Armata Rossa, sullo scacchiere del Vicino Oriente agiscono ormai in piena libertà le forze degli Stati Uniti e della Nato, nonché quelle dei regimi loro alleati, come Arabia Saudita e Israele. Non è certo casuale che proprio gli anni ’90, con un seguito fra il 2000 e il 2002, vedano la Russia governata dall’alcolizzato El’cin, preda di un gruppo di “oligarchi”. In sostanza, come ha rivelato il recente documentario mandato in onda da Rete 4 sul Presidente Putin, la Russia era un paese sull’orlo dello sfascio istituzionale, del caos economico, del degrado sociale; ciò si rifletteva negativamente in tutti i settori delle forze armate, incapaci ormai di costituire un fattore deterrente nei confronti dell’ex nemico e persino di controllare le spinte separatiste in Caucaso. Ancora nel 2002, la tragedia del “Kursk” rivelò il livello di degrado in cui erano cadute le forze armate ex sovietiche.
Il punto culminante dell’attuale periodo di conflittualità guerreggiata internazionale l’abbiamo raggiunto in questi due ultimi anni, e si spera che non si vada oltre. È uno stato di guerra feroce e di confusione dall’Ucraina all’Africa, dove i due termini, guerra e confusione, sono strettamente interdipendenti, sia per i presunti “esperti” dei media di regime – da Libero alla Repubblica – sia, a maggior ragione, per l’osservatore superficiale; sono un binomio inscindibile, i lati di un’unica medaglia, la cui essenza unitaria non è facile da scoprire.
Infatti, se guardiamo la dinamica degli eventi bellici, vediamo che in poche settimane siamo passati da un confronto diretto fra la Russia e la Nato in Ucraina, dove potevamo rischiare il conflitto atomico, ad un massiccio intervento russo in Siria contro il “Califfato”, un intervento che si è guadagnato il favore dell’opinione pubblica internazionale ed ha scavalcato la logica di conflitto frontale con la Nato. Anzi, sembra ora che Stati Uniti ed Europa, in palese difficoltà nella condanna di una guerra russa contro una centrale terroristica che compie attentati a Parigi, si stiano adattando, pur con numerosi distinguo, ad affiancare la Russia senza più disturbare il governo di Assad.

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Durante i mesi più aspri del conflitto ucraino ci furono effettivamente incidenti gravi e premonitori di una guerra atomica. All’inizio della crisi tutti ricordano la strana vicenda di un aereo russo che sorvolò a bassissima quota un cacciatorpediniere americano in navigazione verso Odessa. Sembrò ai più un gioco di guerra, una bravata provocatoria russa, ma il giornalista cattolico Blondet avanzò subito un’ipotesi più complessa, secondo la quale si sarebbe trattato di un atto di guerra elettronica sofisticata. Il caccia americano USS Donald Cook aveva lo scopo di perturbare la linea di dati tra le antenne riceventi del Centro Spaziale della Flotta russa nel Mar Nero e la rete di satelliti militari ELINT nello spettro elettromagnetico; complesso ed avanzatissimo sistema che trasmette alla Crimea i dati della sorveglianza elettronica dei radar e dei sistemi di navigazione della flotta americana, degli aerei di bordo e dei missili antinave imbarcati. “L’aviazione russa ha dovuto mettere fine all’azione della Cook facendo sorvolare due Su-24MP per 11 volte a raso-ponte la nave americana avendo a bordo sistemi di disturbo nella gamma di frequenze 12-18 GH, utilizzate per neutralizzare il radar di difesa attorno all’incrociatore USA”.
Se ne evince che si trattò di un vero e proprio atto di guerra elettronica funzionale a bloccare un attacco alla Crimea e alla flotta russa di Sebastopoli. Infatti Blondet aggiunge che le forze speciali russe avevano la certezza che a bordo della nave in questione, come dell’intera flotta che si apprestava ad attraversare i Dardanelli, guidata dalla portaerei a propulsione nucleare USS George Bush, “erano presenti sei gruppi di commando ciascuno formato da 16 elementi; pronti a raggiungere la costa nuotando sott’acqua, invisibili, costoro avrebbero dovuto compiere azioni di sabotaggio e soprattutto creare il panico tra la popolazione, per esempio provocando esplosioni su mezzi pubblici nelle ore di punta, facendo saltare edifici pubblici eccetera. Nell’imminenza del referendum di adesione della Crimea alla Russia, la paura seminata dai commando si sarebbe tradotta in una minore partecipazione al voto da parte della popolazione, e ciò avrebbe dato la scusa per invalidare l’elezione. Per evitare tale azione, «i russi hanno esercitato un controllo stretto e preventivo, impenetrabile»”.
Inoltre Blondet dà notizia che alcuni commando furono sbarcati ma anche subito catturati dalle forze speciali russe. Se non fu il prodromo di un attacco nucleare, certamente fu uno degli incidenti più seri fra le due superpotenze dagli anni più difficili della Guerra Fredda. E, a quanto pare, non fu il solo. Un secondo, in base a notizie riservate, avvenne dopo l’uccisione di Nemzov, un potente “ex” della cricca collaborazionista di El’cin. Seguirono le manifestazioni collaborazioniste e antipatriottiche fomentate dalla potente Lobby “Soros & Clinton”, specializzata in “rivoluzioni colorate”; Putin non uscì dal Cremlino per più di una settimana e voci mai confermate parlarono di un ordine di attacco atomico britannico, subito intercettato dai servizi russi e rispedito al mittente con prevedibili minacce di ritorsione che indussero Londra a desistere.

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Cosa dire, come inquadrare questa protervia americana contro un paese già sconfitto nel 1991, che però da oltre dieci anni, afferma con decisione la propria posizione di Stato sovrano e di grande potenza che, con piena legittimità, esige di concordare alla pari ogni questione internazionale? Un paese che, oltretutto, proprio alla vigilia della crisi ucraina stava ponendo le basi per la ricomposizione di gran parte dello spazio ex sovietico in una vasta Unione Eurasiatica aperta alla Cina, per controbilanciare le tendenze americane all’egemonia mondiale.
Certo, l’Unione Eurasiatica e il rinnovato protagonismo russo non potevano che dispiacere a tutte le centrali atlantiche, ma questo spiega solo in parte un così aggressivo attacco all’area di più diretto interesse di Mosca, lo spazio ex sovietico e soprattutto l’Ucraina, che era vitale per un’Unione Eurasiatica aperta ad occidente. Nei mesi più aspri della crisi Giulietto Chiesa ha sostenuto che negli USA non ben definiti ambienti militari e politici erano convinti che la macchina atomica americana poteva consentire un attacco improvviso alla Russia e annullarne ogni capacità di pari reazione; in pratica, sarebbe stato possibile annullare il famoso “secondo colpo” su cui si era retto l’equilibrio del terrore.
Scatenare una così grave crisi in Ucraina doveva servire a Washington come pretesto per un attacco nucleare preventivo, che annullasse ogni pericolo atomico nel blocco eurasiatico in rapida formazione? Infatti è la Russia, non la Cina, l’unico paese al mondo in grado di distruggere l’Occidente. Distrutta la Russia, contenere la Cina, imporle la propria politica – vero obiettivo strategico americano sin dal 1999 – sarebbe diventato molto, ma molto più semplice. Prima del 2002 alla Casa Bianca si poteva ancora pensare ad un’alleanza subalterna con Mosca, in stile El’cin, che escludesse a priori ogni minaccia di seria ritorsione atomica. Lo spartiacque per misurare la capacità reattiva militare della Russia e la sua affidabilità per l’Occidente fu il 2008: la provocazione georgiana. Visto il modo in cui reagì Mosca, Bush concluse che Putin non era ancora conquistato all’idea della “democrazia”: rimaneva un pericoloso nemico da eliminare, se si voleva poi azzannare il boccone più prelibato, la Cina.
Il citato incidente della USS Cook ha convinto il Pentagono che la situazione era completamente diversa da quella che detti ambienti teorizzavano? Che la deterrenza russa era tutt’altro che usurata dal tempo? È un fatto che dopo la grave sconfitta di Debaltsevo del dicembre 2014 e gli accordi di Minsk, l’Ucraina e la Nato sembrano ormai aver preso coscienza dell’impossibilità e forse della pericolosità di una nuova offensiva – che peraltro dovrebbe ormai essere sostenuta solo da esigue milizie di estrema destra e da mercenari occidentali, visto lo stato di totale disgregazione dell’esercito di Kiev. La crisi ha preso la deriva di una piaga purulenta infinita, simile al Nagorno Karabakh. Oltretutto, le recenti notizie sulla possibile cessazione dei prestiti allo Stato ucraino da parte degli Stati Uniti e del FMI lasciano intravedere il suo meritato crollo finanziario, che i Russi si attendono fin dai giorni del colpo di Stato atlantico. E una volta senza ossigeno, collassata, al freddo, dove andrà Kiev? Cosa faranno gli Ucraini dell’area centrale e occidentale del paese? Di certo Putin, se non avesse precise certezze sullo stabilizzarsi della crisi ucraina, non si sarebbe mosso con fermezza e decisione nel pantano del Vicino Oriente, prendendo tutti alla sprovvista con una classica mossa del cavallo.

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Credo si noti bene l’assoluta confusione in cui si collocano avvenimenti così tragici e sanguinosi. Siamo ben lontani dalla logica di schieramento della Prima e della Seconda Guerra Mondiale: gli Imperi Centrali contro la Triplice Intesa, fra il 1914 e il 1918; le potenze del Tripartito contro la coalizione antifascista, USA, GB, URSS, fra il 1941 e il 1945. La chiave esplicativa della confusione bellica esistente forse ce la fornisce come al solito Giulietto Chiesa. Sino a tutta la guerra fredda, allo stato della documentazione attualmente disponibile, erano i governi e i capi di Stato a decidere la pace o la guerra, ad assumere l’iniziativa come soggetti politici internazionali. Quindi è più che verosimile che le crisi fra Stati Uniti e Unione Sovietica siano state gestite dalla Casa Bianca e dal Cremlino, senza che l’attivismo autonomo dei servizi di informazione forzasse i rispettivi governi. Anche il nefando incidente del “Golfo del Tonchino” del 1964, che diede a Johnson il pretesto per mandare i marines in Vietnam, fu probabilmente orchestrato con il suo pieno coinvolgimento ed assenso. Tutta la storia documentaria della Guerra del Vietnam, pubblicata in videocassette nel 1989, con testimonianze e interviste ai massimi vertici politici, militari e dei servizi d’informazione dell’epoca, non dovrebbe lasciare troppi dubbi: la Cia prendeva ordini dal governo e dal Presidente.
La crisi dei missili a Cuba non degenerò perché fu governata da Kennedy e da Kruscev, che tennero a bada i rispettivi “falchi” presenti negli ambienti militari. La storia della Guerra Fredda dimostra che ancora alla fine degli anni ’80 il potere politico era gestito dai governi. La più grave crisi internazionale, che portò il mondo sull’orlo della guerra atomica, si verificò senza i clamori della stampa e, dunque, ancor oggi all’insaputa del grande pubblico, nel 1983, quando a capo del PCUS vi era Andropov e alla Casa Bianca Ronald Reagan. Ad inizio anno, Reagan annuncia l’intenzione di procedere al programma di “scudo spaziale” (in codice SDI) per intercettare e distruggere in volo i missili intercontinentali sovietici. L’annuncio di un simile programma era contestuale all’ammodernamento dei missili strategici e all’installazione dei Pershing e dei Cruise in Europa, teoricamente in grado di distruggere i silos interrati dei missili sovietici e i centri di comando dell’Armata Rossa.
A Mosca maturò ben presto la convinzione che la Nato si apprestasse a sferrare un attacco preventivo all’Unione Sovietica, sicché tutta la difesa e il KGB vennero messi in stato di massima vigilanza. Ad un soffio dal dramma si arrivò fra il 1 settembre e il 2 novembre. Lo stato di allerta era tale che, quando un aereo di linea coreano, per puro sbaglio, violò lo spazio aereo sovietico, fu intercettato e abbattuto dai caccia sovietici, che temevano di avere a che fare con un aereo spia americano: 269 morti. Questo è l’unico fatto che in quella crisi venne a conoscenza dei media e del grande pubblico.
Naturalmente ci furono condanne, pianti, lamentele; i comunisti sono “cattivi”, “guardate cosa hanno fatto i Russi!”, l’“impero del male” ecc. Intanto, silenziosamente la tensione cresceva e toccava l’apice agli inizi di novembre: il 2 di quel mese era in programma un’importante esercitazione della Nato, Able Archer 83: una prova di funzionamento dei comandi in caso di crisi internazionale, fino alla simulazione degli ordini di lancio di armi nucleare. Il KGB era convinto che si trattasse di una copertura per un attacco atomico reale e al Cremlino misero in allerta diversi reparti militari. L’allarmismo fu notato dallo spionaggio britannico e persino Reagan si stupì e si preoccupò delle paure sovietiche. Si può pensare che tornasse a funzionare la linea “rossa” fra la Casa Bianca e il Cremlino; comunque Reagan decise che fosse giunto il momento di riaprire le trattative sul disarmo, per evitare che si arrivasse veramente al disastro.
La crisi poco nota dell’83 è, a nostro giudizio, la controprova che, sino a quell’epoca, il potere dei governi nazionali, almeno a livello di superpotenze nucleari, funzionava e teneva sotto controllo militari e servizi d’informazione. Insomma, all’epoca la situazione era ben diversa da quella attuale, in cui non solo la CIA, ma addirittura i servizi dell’Arabia Saudita e della Turchia, dotati di immense risorse finanziarie, all’insaputa della Casa Bianca creano dal nulla una potenza regionale come il “Califfato”, salvo poi non riuscire a controllarla. Certo, per tutti gli anni ’80 i servizi occidentali usarono gli estremisti per combattere l’Armata Rossa in Afghanistan; fecero ricorso ad ogni mezzo per spargere sangue in Salvador e minare il Nicaragua sandinista; con la colpevole e decisiva complicità della Chiesa cattolica aizzarono il popolo polacco contro il socialismo; ma in fin dei conti ognuna di queste iniziative era riconducibile al governo americano, al Presidente e alla sua squadra.
Negli ultimi due decenni il quadro istituzionale dei centri di comando dell’imperialismo atlantico è dunque nettamente cambiato, rendendo molto più gravide di pericoli bellici la politica e le iniziative occidentali. Nonostante le apparenze, sorrette continuamente dalla propaganda, l’Occidente si è indebolito e si sta sfilacciando in una pluralità di consorterie e di soggetti politici, le cui iniziative sono sì riconducibili ad un obiettivo strategico chiaro e unitario, ma si sviluppano autonomamente e spesso senza che un soggetto sappia ciò sta facendo l’altro, in modo altamente contraddittorio. Il comune denominatore di questa disordinata agitazione dei tentacoli della piovra è lo scavalcamento dei centri di potere legittimi e istituzionali. E non alludiamo ai parlamenti nazionali, che non contano più nulla, ma ai governi, soprattutto al governo che conta, a Sua Maestà il Presidente degli Stati Uniti e alla sua squadra.
Come spiegare questo sfilacciamento politico dell’imperialismo atlantico? La spiegazione più semplice potrebbe far riferimento all’enorme potere della finanza globale, che sfugge ad ogni controllo interno ed esterno ed è in grado di finanziare qualsiasi servizio di informazioni e qualsiasi consorteria. Ma, a nostro giudizio, esiste una spiegazione più profonda, che va alla radice della sconfitta che l’America e l’Occidente stanno subendo nella lotta per dominio globale.
È dal 1999 che giace sulla scrivania dello “Studio ovale” un dettagliato rapporto sulle tendenze di sviluppo geoeconomico e geopolitico del blocco asiatico, India e Cina, soprattutto di quest’ultima. Il documento attesta che, senza una preventiva azione americana per bloccare la tendenza in atto, nel 2017 la Cina scavalcherà gli USA come superpotenza in ogni settore, economico, tecnologico, politico, con la possibilità di strappare agli americani il controllo del mercato delle materie prime con mezzi economici – situazione che peraltro si sta già verificando a ritmi accelerati – e di dotarsi di un apparato militare all’altezza della propria nuova condizione.
In generale è in atto una tendenza eguale e contraria a quella verificatasi agli inizi del Cinquecento. Alla fine del Quattrocento le potenze industriali dominanti erano asiatiche, da Costantinopoli sino a Pechino. In particolare la Cina esercitava il potere talassocratico su ogni mare e a fine secolo fu vicina a scoprire l’America. Per motivi economici e sociali ancora controversi – ad esempio la casta dominante dei “mandarini” non vedeva di buon occhio lo sviluppo di una borghesia mercantile autonoma che estendesse i propri affari via mare da Aden sino al Mar Giallo -, in pochi decenni la Cina si ritirò entro i propri confini e smantellò la propria flotta. Questo nel momento in cui si sviluppava il colonialismo spagnolo in America e quello portoghese in Asia, consentendo all’Occidente di diventare il continente dominante. Ora la tendenza economica è inversa: le maggiori industrie del pianeta sono in Asia, non più però nelle colonie anglo-americane, come Taiwan o Singapore, ma in paesi che sono o aspirano ad essere grandi potenze nucleari indipendenti, l’India e la Cina.
La serie di guerre inaugurata da Bush nel 2001 era proprio intesa ad imporre il controllo del mercato delle materie prime con mezzi militari ed a penetrare sempre più in profondità nel territorio eurasiatico, onde avvicinare le basi americane al confine cinese. Ma la situazione si aggravò anno dopo anno per l’ascesa economica e politica della Russia di Putin, che cominciò a cercare sempre maggiori collaborazioni con Pechino e con i paesi del BRICS.
Non è dunque affatto casuale che il serafico Obama, prima del pasticcio siriano e ucraino, intendesse delegare agli alleati della Nato il controllo del Nordafrica e del Vicino Oriente e stabilizzare la situazione in Iraq e in Afghanistan, per ritirare le truppe e giungere ad un accordo sul nucleare iraniano, sino al punto di inimicarsi Israele. La sua strategia è sempre stata il “pivot to Asia”, in stretta alleanza con il Giappone ed altri alleati asiatici e neppure è casuale tutto questo rumore sulla Birmania, che gravitava nell’orbita cinese; un bastione di difesa oggi caduto. Il “pivot to Asia” nei piani originari avrebbe dovuto concentrare i tre quarti del potenziale americano e degli alleati asiatici attorno alla Cina, in particolare su tre linee parallele nell’Oceano Pacifico, da quella più lontana, appena dopo le Midway, a quella interna al Mar Giallo. Una simile concentrazione di forze per strangolare la Cina esige come condizione preliminare che si elimini ogni nemico alle spalle, sui fronti occidentali. Su di essi avrebbero dovuto vigilare Francia, Gran Bretagna, Arabia Saudita ed Emirati. Ma essendosi intromessa la Russia sulla questione siriana nel 2013, avendo Turchia e Arabia Saudita cominciato a nutrire troppe ambizioni egemoniche sulla regione, la situazione s’incancrenì. Dato questo quadro, non ci sarebbe proprio da stupirsi se ambienti radicali a Washington avessero cominciato a premere per liquidare la Russia, soprattutto nel momento in cui questa intendeva ricompattare lo spazio sovietico e cementare i rapporti con Pechino, visto che il 2017 si avvicina e non c’è nessun sintomo che la tendenza al rovesciamento della tendenza si sia anche solo indebolita.
In pratica ci troviamo di fronte ad un blocco imperialistico in stato di convulsione profonda, da cui possono nascere le più diverse e pericolose vie di fuga pur di conquistare in tempi brevissimi l’agognato obiettivo strategico, perché effettivamente il 2017 si sta avvicinando e mette il fiato sul collo a personaggi capaci di tutto, in grado di schiacciare il bottone sulle atomiche o anche distribuirle a qualche gruppo terroristico che lo faccia al loro posto.
In questo quadro il “Califfato” e i settari wahhabiti non sono il punto centrale delle crisi internazionali e, al di là degli attentati di Parigi, non hanno nessuna intenzione di venire in Occidente per sgozzare il Papa e distruggere il liberalismo. Questa ce lo fa credere un stupida e ingenua propaganda, montata ad arte dai tempi della Fallaci, la quale sta facendo più danni da morta che da viva. Ci sono stati alcuni attentati – sulla cui natura Giulietto Chiesa ha sempre avanzato più di un dubbio – ma, se si toglie la Bosnia e il Kossovo, non hanno mai scatenato una vera e propria guerriglia come nel Caucaso. Ed è qui che sta il punto e si trova la verità, svelata chiaramente dal Presidente Putin, nel suo ultimo discorso ai vertici delle forze armate, quando ha affermato: “Noi in Siria difendiamo i confini della Patria!” Non li difendono né i Francesi, né gli Americani, non sbarcheranno mai da loro in massa.
Quasi ogni gruppo della galassia terrorista, dagli anni ’90 al “Califfato”, è una creatura dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi, e sboccia con il consenso della Cia e del Mossad. Infatti non vengono dal mondo wahhabita i combattenti che si fanno saltare in aria al centro di Tel Aviv! Gli uomini di Bin Laden e del sedicente “Califfo” non hanno mai compiuto attentati contro gli ebrei, né fuori né dentro Israele; anzi, hanno agito ed agiscono con tutta la loro forza contro le forze politiche e militari impegnate da decenni nella guerra al sionismo: la Libia di Gheddafi, la Siria di Assad, le formazioni sciite di Hezbollah.
L’islamismo terrorista opera in funzione di interessi occidentali o riconducibili all’Occidente: in prima fila l’Arabia Saudita, fedele caposaldo americano nella regione sin dagli anni ‘50 – e qui torniamo al discorso dei “manovratori occulti” e di chi pensa di sfruttarli a proprio vantaggio! Attenzione a non diventare un “apprendista stregone”! Spesso, se si manovra male, si generano mostri che possono anche sfuggire al controllo di chi li ha creati. È della Clinton la recente affermazione che “gli uomini del califfato sono andati fuori controllo”; contrabbandando petrolio alla Turchia e ad Israele, essi possono finanziare autonomamente la propria guerra.
Quali sono gli interessi strategici in gioco? L’Arabia Saudita ha come scopo prioritario eliminare gli sciiti dalla regione e contenere nel Golfo l’influenza iraniana, come dimostrano gli ultimi drammatici eventi, verificatesi dopo l’assassinio dell’Imam sciita Al-Nimr. Gli Usa vogliono utilizzare i tagliagole, come hanno già fatto negli anni ‘90, nel Caucaso, nell’Asia Centrale ex sovietica sino al “boccone prelibato”, la regione musulmana cinese dello Xin Jiang, già in ebollizione da anni. La speranza è che utilizzarli in quelle regioni porti all’agognato traguardo di destabilizzarne gli equilibri. Sarebbe eliminata l’unione doganale eurasiatica, tornerebbero a farsi sentire le spinte indipendentiste in Cecenia e in Daghestan, scoppierebbero in Cina. E si badi bene che, in Cina, se si muove una sola pedina periferica se ne possono muovere altre ben più consistenti. Dopo lo Xin Jiang potrebbe scoppiare il Tibet e ciò provocherebbe le urla internazionali di tutte le consorterie buddiste. Pensiamo solo al putiferio che potrebbe scatenare Richard Gere!

In un contesto così intricato, in cosa consiste lo “scontro di civiltà”, su cui da destra e da sinistra si va sproloquiando sin dal colpo di Stato dell’11 settembre 2001? Più in generale, come si colloca l’intera civiltà islamica, che viene strattonata da tutti, per lo più in modo indecente? Su questo piano, almeno in Italia, ma credo nell’intero Occidente, si sta vivendo un vero regresso più antropologico che ideologico. Regresso nel senso che gli argomenti e i toni che si usano per attaccare il presunto nemico “islamico” ricordano l’anticomunismo viscerale del dopoguerra. Nel 1945 erano i comunisti a “mangiare i bambini”; ora sono gli “islamisti”, anzi, gli “islamici”. Il meccanismo che è scattato oggi verso l’intero mondo islamico è identico. E la paura dei nuovi mangiatori di bambini tocca uniformemente il cristiano, il laico e quel po’ di comunisti che ancora esiste. Lo possiamo dire per esperienza famigliare: l’anno scorso, quando cominciarono a “informarci” su questa gente, a far vedere mucchi di cadaveri, a mandare in onda videomessaggi in cui gli uomini del “Califfo” minacciavano di invadere l’Europa, mio padre, comunista trinariciuto di 84 anni, si alzò dalla poltrona impietrito, esclamando: “Ma non arriveranno mica da noi, che siamo vicini al porto di Savona?” Se poi lo “sbarco” islamista lo intrecciamo alla questione degli immigrati, il quadro del regresso antropologico è completo e richiama direttamente il famoso film americano maccartista degli anni ’50, L’invasione degli ultracorpi. Ci stanno invadendo! Stanno arrivando! Anzi sono già qui, pronti a rapire il Papa! Che una parte consistente di questi invasori sia costituita di cristiani copti, cristiani cattolici, indù, sembra che non lo sappia nessuno!
Un pericoloso antislamismo di questo tipo agisce su di un retroterra di assoluta ignoranza sull’Islam e sulla sua storia; un’ignoranza indubbiamente coltivata ad arte, perché siamo sicuri che un Magdi Allam l’Islam lo conosca molto bene. Sa cosa sono i sunniti, i wahhabiti, gli sciiti. Conosce la storia ed è informato sul fatto che, in tutto il mondo islamico – arabo e non arabo, sunnita e sciita – fra i secoli VII e XIII si sviluppò una splendida civiltà multireligiosa, nella quale poterono esprimersi correnti filosofiche platoniche e aristoteliche. Sa anche della tolleranza di cui godevano le comunità ebraiche, che in età medioevale espressero la loro filosofia proprio entro il mondo islamico, mentre nell’Europa cattolica le cose erano assai diverse – e nei secoli successivi, fino all’Illuminismo, andò anche peggio. Pensiamo solo al grande macello della Guerra dei Trent’anni, 1618-1648, in Germania, in Italia, nei Paesi Bassi. Dunque Magdi Allam avrebbe tutti i mezzi culturali per non urlare in TV, di fronte a milioni di telespettatori già spaventati per loro conto: “Voi ve lo immaginate un cristiano che uccide per Dio? No! Ve lo immaginate un ebreo che uccide per Dio! No! e invece il musulmano uccide per Dio!” E questo senza fare distinzioni fra le varie correnti dell’Islam, visto che comincia ad essere un po’ chiaro anche ai TG che ad uccidere per Dio sono i salafiti e i wahhabiti. È come se, riferendosi alla notte di San Bartolomeo, uno parlasse genericamente di cristiani e non di cattolici. Il messaggio che viene diretto da simili provocatori è che sunniti, sciiti, salafiti e wahhabiti sono la stessa cosa e che quelli che ancora non hanno sparato sono pronti a farlo. Ma se così fosse, essendocene ormai milioni in Europa, saremmo già tutti spacciati! Anche perché, se esiste un carattere comune dell’Europeo contemporaneo, prodotto della democrazia, delle tutele legali, dell’edonismo capitalista, è la sua quasi totale perdita di virilità; e non ce lo vediamo proprio a difendere sé e la sua famiglie da orde con scimitarra e turbante. Del resto è cronaca di tutti i giorni che, non appena uno spara ad un ladro che gli entra in casa, viene puntualmente arrestato e condannato dalla magistratura.
Morale della favola: stiamo attenti a non farla scoppiare sul serio la guerra civile con i musulmani, aggiungendo provocazione a provocazione! Anche perché a salvarci non arriva Putin, il quale, tra l’altro, è molto attento a non ledere i diritti delle minoranze religiose, soprattutto di quelle musulmane.

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L’UNGHERIA TRA L’ORIENTE E L’OCCIDENTE

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Riportiamo il canovaccio della relazione tenuta dal direttore di “Eurasia” alla conferenza del centro studi internazionale Dimore della sapienza (Brescia 16 gennaio 2016)

Cercherò in primo luogo di delineare il profilo dello spazio geografico storicamente occupato dal popolo ungherese, perché lo spazio in questione ha influito e continua ancora ad influire sulla sorte storica di questo popolo.

Si tratta dello spazio che viene chiamato Bacino Pannonico (dal nome del popolo illirico che lo abitava nell’antichità) o Bacino dei Carpazi (dal nome della catena montuosa che lo delimita a nord e ad est).

Racchiuso tra le Alpi, i Carpazi e i Balcani, il Bacino Pannonico è la più vasta e la più chiusa tra le unità territoriali attraversate dal Danubio (le altre sono, ad ovest, lo spazio bavaro-svevo e quello della Bassa Austria; ad est, quello valacco-bulgaro). Il Bacino Pannonico non ha un litorale marino: è una vasta pianura che configura un settore di cerchio delimitato da massicci montani. Sembra che tutto il suo peso, poggiando sulle coste adriatiche e sulla regione balcanica, protegga o minacci l’Europa ed il Mediterraneo.

Infatti il Bacino Pannonico rappresentò una minaccia tra la fine dell’età antica e la prima metà del Medioevo, nel periodo delle “invasioni barbariche” (come vengono chiamate in Italia quelle che gli Ungheresi e i Tedeschi chiamano “migrazioni di popoli” (nelle rispettive lingue, népvándorlás e Völkerwanderung).

Goti, Gepidi, Unni, Avari e infine Ungari, in un primo momento fecero di questa fortezza naturale, collocata fra l’Oriente e l’Occidente, il punto di partenza delle loro scorrerie.

Non sto qui a rievocare la storia e le tappe della migrazione ungara prima dell’arrivo di questo popolo nel Bacino Pannonico. Basti dire che nell’anno di grazia 895 circa 200.000 cavalieri ungari accompagnati dalle loro famiglie, provenienti dalle pianure meridionali della Russia, valicarono il passo carpatico di Verecke. (Che oggi si trova in Ucraina; in memoria del passaggio degli Ungari vi sorge un monumento che è stato vandalizzato dagli sciovinisti ucraini nei giorni del golpe di Maidan). Gli Ungari dilagarono nella pianura solcata dal Tibisco e dal Danubio, abitata da tribù di varia appartenenza etnica. Questo evento, che gli Ungheresi chiamano “occupazione della patria” (honfoglalás) o “conquista della patria” (honhodítás), diede inizio alla nuova fase della loro storia.

Gli Ungari erano organizzati in dieci tribù, sette delle quali propriamente ugriche e tre cabarde (i Cabardi erano un popolo turco). Fra tutte, quella preminente era la tribù Magyar, il cui capo, Arpád, guidava l’intera comunità. E fu questa tribù ad estendere a tutto il popolo ungaro la denominazione di magyar, che gli Ungheresi usano ancora oggi.

Infatti Magyarország (lett. “paese magiaro”) è oggi, in base alla nuova Costituzione ungherese, la denominazione ufficiale dell’Ungheria.

Questa decisione non è piaciuta agli agguerriti critici della nuova Costituzione ungherese. Il “Corriere della Sera”, ad esempio, con sovrano sprezzo del ridicolo ha scritto che la denominazione Magyarország (“Ungheria”) in luogo di Magyar köztársaság (“Repubblica Ungherese”) richiama la “retorica di una grandeur nazionalistica che sembrava archiviata”.

Dicevo che il Bacino Pannonico rappresentò una minaccia per l’Europa dell’epoca. Nella prima metà del sec. X, infatti, gli Ungari intrapresero decine di spedizioni in varie parti d’Europa. Da Bisanzio ai Pirenei, gli Ungari seminavano il terrore, devastavano le campagne, espugnavano le città meno difese, catturavano bottino e prigionieri. “Nunc te rogamus, licet servi pessimi, – ab Hungarorum nos defendas jaculis”: così in Emilia si chiedeva a Dio la protezione contro le frecce dei cavalieri ungari. Identificati con gli Unni, gli Ungari erano visti come un secondo “flagello di Dio”; chi li diceva figli di diavoli e di streghe àvare, chi riconosceva in loro le genti di Gog e di Magog.

Con Enrico l’Uccellatore comincia però la riscossa dell’Europa cristiana contro le incursioni ungare. Il sovrano sassone, che in un primo tempo era stato costretto a versare il tributo agli Ungari per evitare i loro saccheggi, nel 933 li sconfigge in una battaglia campale. Nel 955 suo figlio Ottone I sbaraglia di nuovo nel Lechsfeld l’orda ungara che aveva assalito Augusta (Augsburg).

In seguito alla sconfitta, gli Ungari avvertono la necessità di cambiare rotta, instaurando rapporti di buon vicinato con il Sacro Romano Impero, rinunciando definitivamente al seminomadismo ed alle incursioni e insediandosi stabilmente nel bacino carpatico-danubiano.

Per compiere questa svolta, gli Ungari devono legittimarsi, abbandonando la religione dei padri (una forma di sciamanesimo affine a quello dei Finni e dei Turchi) e adottando quella cristiana. Il principe Taksony chiede alla Santa Sede di inviare un vescovo tra gli Ungari; il suo successore Géza si fa battezzare; il figlio di Géza, Vajk, assume il nome cristiano di Stefano, nell’anno 1000 riceve la corona d’Ungheria da papa Silvestro II e prosegue decisamente nell’opera di conversione delle tribù ungare.

I barbari predatori diventano le sentinelle dell’Europa sul confine orientale. Se il limes dell’Impero Romano era segnato ad est dal corso del Danubio, dopo il 1000 il limes orientale dell’Europa medioevale è rappresentato dal regno d’Ungheria.

L’Ungheria diventa così un antemurale Christianitatis contro gli attacchi provenienti da oriente.

In seguito, tre imperi si sarebbero affrontati per controllare lo spazio solcato dal Danubio: l’impero absburgico, l’impero ottomano e quello russo, ciascuno seguendo una diversa direzione di marcia. Gli Austriaci discesero il fiume, i Turchi lo risalirono, l’Armata Rossa lo attraversò.

Nell’impero absburgico, che controllò buona parte dello spazio danubiano fino alla prima guerra mondiale, il centro di gravità non era occupato dai Tedeschi, ma dalla massa compatta degli Ungheresi. L’Ungheria costituiva il nerbo dell’impero: nel centro geometrico della Monarchia absburgica, al centro del bacino danubiano, c’erano Buda e Pest, mentre Vienna si trovava alla periferia, vicino al confine occidentale. Periferici erano anche gli altri territori: Transilvania, Bosnia, Carinzia, Stiria, Slovacchia, Boemia, Galizia. Sulla carta geografica, la Monarchia danubiana appariva come un’Ungheria prolungata verso il nord e verso l’ovest.

È questo lo sfondo geopolitico del Compromesso (Ausgleich, Kiegyezés), la riforma costituzionale del 1867, che Vienna si vide costretta ad adottare in seguito alla sconfitta subita nella guerra austro-prussiana dell’anno precedente, riconoscendo al blocco compatto degli Ungheresi un peso decisivo. In virtù del Compromesso, l’Impero d’Austria diventava una “monarchia austro-ungarica”: una duplice monarchia che, sotto un identico sovrano (Imperatore d’Austria e Re d’Ungheria), si articolava in due regni distinti. Se i ministeri competenti per la politica estera, la politica economica e quella militare erano in comune, accanto all’imperial-regio esercito esistevano anche un esercito nazionale austriaco (Landwehr) e un esercito nazionale ungherese (Honvéd), mentre le questioni finanziarie e quelle commerciali erano regolate da accordi decennali rinnovabili.

Gli Ungheresi non erano solo il popolo centrale del bacino danubiano, ma erano anche l’unico che apparteneva soltanto ad esso, l’unico la cui lingua non era parlata da nessun’altra parte. La patria degli Ungheresi (come d’altronde quella dei Cechi, degli Slovacchi, degli Sloveni e dei Croati) si trovava tutta quanta entro i confini della Monarchia absburgica, mentre altri popoli (i Tedeschi, i Serbi, i Romeni, gli Ucraini, i Polacchi, gl’Italiani) erano insediati in parte entro i confini absburgici e in parte fuori.

Non è corretto formulare delle ipotesi circa sviluppi storici che non si sono verificati; tuttavia si è inevitabilmente tentati di dire che l’Austria-Ungheria sarebbe diventata una Grande Ungheria, se la prima guerra mondiale non avesse posto fine all’esistenza dell’impero, riducendo inoltre l’Ungheria ai minimi termini.

Tutti sappiamo quali effetti devastanti sono stati prodotti – con conseguenze che durano fino ai giorni nostri – dai trattati di pace che vennero imposti agli sconfitti della prima guerra mondiale.

Per quanto riguarda in particolare l’Ungheria, essa pagò a carissimo prezzo la distruzione dell’Impero asburgico.

I confini dello Stato ungherese, fissati dal Trattato del Trianon il 4 giugno 1920, privavano l’Ungheria di circa due terzi del suo territorio e della sua popolazione.

Nelle province che l’Ungheria dovette cedere ad altri Stati la popolazione apparteneva per lo più ad etnie non ungheresi (Slavi e Romeni soprattutto); in certi casi, però, essa includeva significative minoranze ungheresi, mentre in alcuni territori c’era addirittura una maggioranza ungherese.

Secondo i dati del censimento del 1910 la popolazione ungherese in Transilvania ammontava a 1.662.000 individui (32%), in Slovacchia a 885.000 (30%), nella Rutenia subcarpatica, passata all’Ucraina, a 183.000 (30%), nella Voivodina, passata alla Jugoslavia, a 420.000 (28%), nel Burgenland, passato all’Austria, a 26.200 (9%), in Croazia a 121.000 (3,5%), in Slovenia a 20.800 (1,6%).

Per effetto del Trattato del Trianon la popolazione ungherese diminuì in tutte queste regioni; tuttavia notevoli minoranze ungheresi vi risiedono ancora oggi, specialmente in Romania, in Slovacchia, in Serbia ed in Ucraina.

Come si disse all’epoca con un amaro umorismo, l’Ungheria era diventata l’unico paese al mondo che confinasse con se stesso da ogni lato. A questa boutade se ne aggiungeva un’altra: l’Ungheria, oltre ad essere una monarchia senza re, era un paese senza mare guidato da un ammiraglio. Infatti il nuovo staterello ungherese non ebbe più nessun accesso al mare, mentre per oltre 800 anni il Regno d’Ungheria si era affacciato sull’Adriatico.

Nacque allora un neologismo che oggi è passato a indicare tutt’altra cosa: revisionismo. Tale termine indicava la richiesta ungherese di sottoporre a revisione il Trattato del Trianon, richiesta che venne appoggiata da quegli Stati che erano stati anch’essi in vario modo penalizzati dai trattati di pace, in primis la Germania e l’Italia.

Dell’avvicinamento a Roma e a Berlino l’Ungheria raccolse i frutti il 30 agosto 1940, quando i ministri degli esteri del Reich e dell’Italia, Joachim von Ribbentrop e Galeazzo Ciano, emisero a Vienna una decisione arbitrale che restituiva a Budapest una parte dei territori assegnati alla Romania (la Transilvania del nord).

Poi però, in seguito alla vittoria delle potenze alleate, l’Ungheria, alleata dell’Asse, uscì dal secondo conflitto mondiale con gli stessi confini stabiliti dal Trattato del Trianon. e per quarant’anni fece parte dello spazio geopolitico egemonizzato dall’URSS.

Ma fu proprio l’Ungheria, il 23 agosto 1989, che iniziò a smantellare la Cortina di Ferro, favorendo l’esodo di migliaia di Tedeschi dalla DDR. Con la caduta del Muro di Berlino e della Cortina di Ferro, con lo scioglimento del Patto di Varsavia, la dissoluzione dell’URSS e il rovesciamento del sistema comunista, l’Ungheria si orientò verso i modelli economici e politici dell’Europa occidentale, cosicché nel 1989 la Repubblica Popolare Ungherese (Magyar Népköztársaság) cessò di esistere.

Qualche anno più tardi, nel maggio 1995 (dopo la vittoria elettorale dei socialisti e la loro alleanza coi liberaldemocratici) si tenne a Budapest l’assemblea parlamentare della NATO. L’Ungheria non era ancora un paese membro dell’Alleanza Atlantica, però aveva aderito al “Partenariato per la Pace” creato dalla NATO nel 1994 ed aveva dato l’assenso all’allestimento di una base militare statunitense a Taszár, nelle vicinanze della frontiera bosniaca.

Fu solo nel marzo 1999, all’epoca del primo governo Orbán (1998-2002), che l’Ungheria entrò ufficialmente a far parte dell’organizzazione militare atlantica e, in quanto tale, prese parte alla missione della NATO in Afghanistan (l’ISAF) ed alla guerra in Iraq, stanziandovi 300 militari ufficialmente non impegnati in operazioni di combattimento.

Chi era il Primo Ministro Viktor Orbán?

Nato nel 1963 a Székesfehérvár, non lontano da Budapest, da una famiglia d’origine transilvana di confessione calvinista, Viktor Mihály Orbán aveva fondato nel 1988 l’Alleanza dei Giovani Democratici, in ungherese Fiatal Demokraták Szövetsége, da cui l’acronimo Fidesz (che suona all’orecchio come l’omofona parola latina). Si trattava di una formazione liberale e progressista, impegnata sul tema dei diritti civili.

Nel 1990, quando Orbán entra in Parlamento, il Fidesz è schierato all’opposizione, contro il governo di centrodestra presieduto da József Antall, esponente del Forum Democratico Ungherese (Magyar Demokrata Fórum), formazione affiliata al Partito Popolare Europeo.

Nel 1994, allorché i socialisti vincono le elezioni e si alleano coi liberaldemocratici, Orbán si schiera di nuovo all’opposizione, con un Fidesz che, da liberale e progressista che era, si è spostato nel campo del centrodestra. Prima di morire (nel 1993), Antall ha investito Orbán della sua eredità politica, convincendolo ad abbandonare le posizioni precedenti. Alcuni membri del Fidesz non hanno accettato la svolta e hanno dato le dimissioni dal partito, ma la maggioranza ha seguito Orbán, che negli anni passati all’opposizione consolida il suo nuovo profilo politico.

Dopo aver presieduto il suo primo governo (fra il 1998 e il 2002, come si è detto), Orbán dovette cedere il passo ad una coalizione di centrosinistra guidata da un banchiere, Péter Medgyessy. Si parlò allora di una vendetta dei “poteri forti” contro il governo di Orbán, che aveva concesso prestiti a fondo perduto ai cittadini bisognosi di costruirsi una casa. La stampa ungherese, controllata da Soros e da Murdoch, aveva scatenato una campagna contro Orbán, accusandolo tra l’altro di essersi alleato con il Partito Ungherese della Giustizia e della Vita (Magyar Igazság és Élet Pártja), fondato dal drammaturgo István Csurka e bollato come “antisemita”.

Al governo di Medgyessy seguirono quello di Ferenc Gyurcsány, “il socialista in limousine”, travolto da uno squallido scandalo, e poi quello di Gordon Bajnai, anche quest’ultimo fortemente impopolare, poiché, per accedere al prestito del Fondo Monetario Internazionale, ridusse ai minimi termini le spese di carattere sociale.

Nel 2010, Orbán va al governo una seconda volta, con la maggioranza parlamentare più solida affermatasi in Ungheria dopo la caduta del regime comunista (263 seggi su 386).

Durante questo secondo mandato, che dura fino al 2014, entra in vigore (il 1 gennaio 2012) la nuova Costituzione.

Il Preambolo della nuova carta costituzionale riconosce un valore fondante alla rivolta del 1956, valorizzandone non gli elementi riformisti e “di sinistra” (quelli rappresentati dall’ultimo governo di Imre Nagy, abbattuto dalla repressione sovietica), ma gli aspetti civici e nazionali.

(D’altronde, la lettura della rivolta del 1956 fatta da Orbán e dai suoi ricalca, senza citarlo, il discorso radiofonico fatto dal Cardinale Mindszenty appena scarcerato. “Questa non è una rivoluzione, ma una lotta per la libertà”, disse allora il Cardinale, volendo sottolineare l’aspetto nazionale dell’insurrezione).

Essendo dunque di orientamento nazionale e conservatore, la nuova Costituzione ungherese, pur essendo stata approvata dai due terzi del Parlamento, è stata bollata in Occidente come antidemocratica e liberticida. Tra le personalità di governo che l’hanno attaccata, forse la più violenta è stata la segretaria di Stato nordamericana.

In particolare, la nuova Costituzione ha suscitato le critiche delle istituzioni comunitarie europee. L’Ungheria era entrata nell’Unione Europea il 1° maggio 2004, sperando, tra l’altro, che tale adesione potesse servire a risolvere i problemi inerenti alle frontiere istituite dal Trattato del Trianon.

Infatti lo smembramento dell’Ungheria avvenuto col Trattato del Trianon è un motivo presente nella nuova Carta costituzionale ungherese, che nel Preambolo dichiara: “Promettiamo di custodire l’unità spirituale e morale della nostra Nazione, andata in pezzi nelle tempeste del secolo scorso”. Su questo punto della Costituzione si fonda l’estensione della cittadinanza ungherese, col relativo diritto di voto, ai connazionali che sono cittadini dei paesi confinanti.

Andando per ordine, il primo punto della Costituzione che è stato contestato in Occidente è il riferimento a Dio ed alla religione, per cui si è addirittura parlato di una ispirazione “clericale” e di un progetto “teocratico”. E questo perché il testo costituzionale si apre con l’invocazione “Dio, benedici l’Ungherese!” (Isten, áldd meg a Magyart); è il verso iniziale dell’Inno di Ferenc Kölcsey (1790-1838), la poesia che, musicata da Ferenc Erkel, è diventata inno nazionale; un inno che viene cantato anche in chiesa al termine della messa.

(Detto per inciso: si potrebbe replicare che anche l’inno nazionale italiano, evocando una Vittoria poeticamente personificata, dice che “schiava di Roma – Iddio la creò”. D’altronde non risulta che i critici del presunto carattere clericale della Costituzione ungherese, a cominciare dalla signora Clinton, abbiano rivolto critiche analoghe in relazione agli Stati Uniti, dove il presidente termina spesso i suoi discorsi con la frase “God bless America!” e dove le banconote recano la scritta “In God we trust“).

Ma non si tratta solo del verso dell’Inno di Kölcsey. Nel Preambolo della Costituzione, intitolato Professione di fede nazionale, si legge: “Siamo fieri del fatto che mille anni fa il nostro re Santo Stefano abbia collocato lo Stato ungherese su solide fondamenta ed abbia reso la nostra patria parte dell’Europa cristiana”. E più avanti: “Riconosciamo il ruolo di conservazione della nazione svolto dal cristianesimo”. Tali affermazioni sono state giudicate contrarie ai valori di laicità ai quali si ispira l’Unione Europea e sono sembrate discriminatorie nei confronti dei fedeli di altre religioni.

In realtà, una tale accusa è smentita dal fatto che lo stesso testo costituzionale riconosce il carattere multiconfessionale dell’Ungheria, laddove dichiara: “Rispettiamo le diverse tradizioni religiose del nostro paese”.

A questo proposito vale la pena di ricordare che la nuova legge sulle confessioni religiose, in applicazione del dettato costituzionale, garantisce il riconoscimento dello Stato a 14 comunità religiose: più di quelle con cui la Repubblica Italiana ha stipulato un concordato o un’intesa. Bisogna anche aggiungere che, prima che venisse emanata questa legge, le organizzazioni religiose, parareligiose e pseudoreligiose sovvenzionate col denaro pubblico erano ben 300. Era sufficiente raccogliere un centinaio di firme e chiunque poteva aspirare ad incassare, a nome della propria “chiesa”, l’uno per cento del reddito dichiarato dai contribuenti. Contrariamente a quanto la propaganda dirittumanista vorrebbe far credere, tutte queste organizzazioni non sono state interdette, ma sono diventate semplici associazioni private.

Un altro articolo costituzionale che ha provocato notevole sconcerto fra i sostenitori dei “diritti umani” è l’articolo L (prima parte della Carta), che definisce il matrimonio come “comunione di vita (életközösség) tra uomo e donna”.

In un rapporto del 31 marzo 2011 Amnesty International giudica particolarmente problematico il fatto che la nuova Costituzione non interdica la discriminazione fondata sugli orientamenti sessuali. Al Parlamento europeo l’Alleanza dei liberali e democratici per l’Europa (che riunisce varie formazioni politiche) ha protestato contro questo articolo, che, a loro dire, discrimina le coppie omosessuali “sulla base di specifici valori come la fede, la lealtà, la preminenza della comunità e della nazione sull’individuo”.

Nella seconda parte del testo costituzionale, che concerne diritti e doveri dei cittadini, ha suscitato analoga riprovazione l’articolo II, il quale afferma che la vita umana è protetta fin dal momento in cui viene concepita. Si è sostenuto che tale articolo violerebbe i valori europei; in realtà, esso è perfettamente conforme al principio del diritto romano secondo cui “infans conceptus pro nato habetur” (“il bambino concepito è considerato come nato”).

Tralasciando le altre accuse che gli alfieri dei “diritti umani” rivolgono alla nuova Costituzione, si può osservare che quest’ultima tocca i vertici dell’eterodossia laddove rimanda all’attività del legislatore l’attuazione di una disposizione concernente la Banca Centrale Nazionale, ispirando una serie di riforme costituzionali che mirano a sottrarre beni e risorse al controllo degli speculatori internazionali ed a riportarli nelle mani degli Ungheresi.

Veniamo ora al terzo governo di Orbán, quello attualmente in carica.

Nelle elezioni politiche dell’aprile 2014 il Fidesz ha ottenuto il 44,5% dei voti e la maggioranza assoluta dei seggi. Ricevuto per la terza volta l’incarico di formare un governo, Orbán ha assunto posizioni politiche che gli hanno attirato pesanti critiche e condanne. Per esempio, ha fatto scandalo la sua dichiarazione di non ritenere più adatta la forma occidentale di democrazia liberale e di ritenere necessario “liberarsi dai dogmi” ideologici.

Per quanto riguarda le relazioni dell’Ungheria con gli altri paesi europei, Orbán ha rilanciato il cosiddetto “gruppo di Visegrád”, che si era costituito nel 1991 in seguito ad un vertice dei capi di Stato e di governo di Cecoslovacchia, Ungheria e Polonia.

(Nella città ungherese di Visegrád, 650 anni prima, Carlo I d’Ungheria, Casimiro III di Polonia e Giovanni I di Boemia avevano concordato sulla necessità di creare nuove vie commerciali che, evitando il centro di Vienna, ottenessero accessi più veloci ai diversi mercati europei).

L’incontro del 1991 si era svolto per stabilire e rafforzare la cooperazione fra questi tre Stati – Cecoslovacchia, Ungheria e Polonia (diventati quattro il 1º gennaio del 1993 con la divisione consensuale della Cecoslovacchia), allo scopo di promuovere l’integrazione unitaria del gruppo nell’Unione Europea.

Fallito questo tipo di approccio, si passò presto a rapporti diretti tra Bruxelles e i singoli Stati candidati, che entrarono nell’Unione Europea il 1º maggio 2004.

Adesso l’Ungheria, insieme con la Polonia, la Repubblica Ceca e la Slovacchia, forma un’alleanza che intende rafforzare la politica degli Stati nazionali all’interno dell’Unione Europea.

Il giorno dell’Epifania, Orbán ha incontrato Jaroslaw Kaczynski, presidente del più forte partito politico della Polonia, il Partito Diritto e Giustizia (Prawo i Sprawiedliwość), di ispirazione conservatrice.

Siccome il governo polacco è attualmente accusato di violare lo Stato di diritto, la separazione dei poteri e la libertà di stampa e la coalizione di governo tedesca (stando alla Deutsche Presse-Agentur) considera l’ipotesi di introdurre sanzioni contro il governo di Varsavia, Orbán ha dichiarato pubblicamente che Budapest non permetterà mai all’Unione Europea di punire la Polonia.

Ora, la solidarietà ungherese verso la Polonia cozza con l’atteggiamento russofobico della Polonia. Se fino ad alcuni mesi fa il partito di Kaczinski accusava Orbán di “agire contro l’unità dell’Unione Europea con le sue relazioni con la Russia”, adesso il nuovo governo polacco si deve difendere dagli attacchi provenienti da ovest e deve contare sulla solidarietà ungherese, per cui, presumibilmente, sarà costretto ad attenuare la sua russofobia.

Orbán, infatti, ha allacciato stretti legami con la Russia e con la Cina, soprattutto per quanto riguarda il settore energetico, ma non solo: da quest’anno la televisione ungherese di Stato trasmetterà quotidianamente un notiziario in lingua cinese, dedicato alle decine di migliaia di Cinesi che vivono e lavorano in Ungheria. Il telegiornale in cinese andrà in onda subito dopo quello in russo.

Per quanto concerne le relazioni che il governo di Orbán intrattiene con la Russia, la Russia è il primo interlocutore commerciale dell’Ungheria fuori dall’Unione Europea. Inoltre l’Ungheria ha siglato con la società russa Rosatom un accordo da 10.000 milioni di dollari per la costruzione di un reattore atomico di 2000 megawatt.

Si capisce così perché un paio d’anni fa il “Washington Post” abbia paventato il rischio che l’Ungheria possa diventare un avamposto della Russia e perché il senatore statunitense John Mc Cain, noto per la sua russofobia, abbia criticato pesantemente le relazioni dell’Ungheria con la Russia, definendo il Primo Ministro ungherese nientemeno che “un dittatore neofascista” e provocando una crisi diplomatica tra Washington e Budapest.

Mc Cain aveva detto testualmente: “L’Ungheria si trova sul punto di cedere la sua sovranità ad un dittatore neofascista che va a letto con Vladimir Putin”.

Liquidando le parole di Mc Cain come “manifestazioni di estremismo”, Orbán dichiarò: “In questo momento l’indipendenza nazionale dell’Ungheria si trova sotto attacco. (…) L’indipendenza dell’Ungheria in termini di energia, di finanze e di relazioni commerciali dà fastidio a coloro che prima del 2010 hanno tratto vantaggio dalla dipendenza del nostro Paese”.

In tutta la sua storia, dalla “conquista della patria” fino ad oggi, la nazione ungherese si è trovata a metà strada fra l’Oriente, da cui essa era provenuta, e l’Occidente europeo, nel quale si era venuta ad inserire.

Ha dovuto scegliere – e a volte sono stati altri a scegliere per lei – tra le steppe e la pianura danubiana, tra lo sciamanesimo e il cristianesimo, tra Bisanzio e Roma, tra il cattolicesimo e la Riforma protestante, tra l’impero ottomano e quello absburgico, tra il Patto di Varsavia e l’Alleanza Atlantica.

Oggi il problema di una scelta non si pone, quanto meno per ora; nonostante le divergenze e le polemiche, nonostante l’insofferenza degli Ungheresi per le istituzioni comunitarie, l’Ungheria fa parte dell’Unione Europea.

Però quattro anni fa, nel periodo più caldo dello scontro che oppose il governo di Budapest alle istituzioni di Bruxelles Orbán si lasciò sfuggire questa frase: “C’è vita anche fuori dall’Unione Europea” o “Si può vivere anche fuori dall’Unione Europea”.

Poco dopo, Orbán ha compì una visita di due giorni in Kazakistan, nel corso della quale dichiarò: “Gli Ungheresi hanno capito presto quello che i dirigenti dell’Unione Europea sono riluttanti ad accettare ed accettano con grande difficoltà. Noi non possiamo continuare a vivere come abbiamo vissuto finora”.

Secondo il capo del governo ungherese, il centro di gravità del potere mondiale si sta spostando verso Oriente, perciò l’Ungheria vuole aprirsi alle economie orientali; la visita del primo ministro ungherese ad Astana fu presentata come un evento importante nel processo di apertura dell’Ungheria all’Asia.

A caldeggiare un più stretto rapporto dell’Ungheria con l’Oriente, in particolare con quelli che i Magiari considerano “popoli affini”, non sono soltanto il governo di Viktor Orbán e la coalizione conservatrice che lo sostiene. L’opposizione di destra, rappresentata dal “Movimento per un’Ungheria migliore” (Mozgalom egy jobbik Magyarországért, detto correntemente Jobbik), esprime posizioni sostanzialmente analoghe, ma formulate in termini più radicali. Tre anni fa su un numero di “Barikád” apparve un articolo di Gábor Vona, il presidente di Jobbik, che recava un titolo esplicito ed eloquente: “Eurasiatismo, anziché euroatlantismo!” (Euroatlantizmus helyett eurázsianizmust!).

“Al mondo – scriveva Vona – ci sono 300 milioni di uomini che si identificano come appartenenti a popoli turanici. Questi popoli si domandano con stupore come mai noi Ungheresi non coltiviamo come dovremmo questa nostra eredità. È un fatto sostanziale che questa fascia turanica, che dall’Ungheria si estende fino alla Cina, oggi costituisce uno degli scacchieri più importanti, se non il più importante, della politica mondiale. Essa possiede gran parte delle riserve di gas naturale e di petrolio della terra, per cui la sua rilevanza geopolitica non può essere esagerata. Se stabilisse un’alleanza con questa compagine, l’Ungheria potrebbe uscire dalla sua attuale condizione coloniale ed acquisire un ruolo nella politica mondiale”.

Vona sostiene che solo una “svolta ad Oriente” o una “apertura ad oriente” potrebbe far uscire l’Ungheria dalla situazione disperata attuale, dovuta ad un asimmetrico rapporto con l’Occidente. L’Ungheria non può affidarsi all’Unione Europea, se vuole rimettere in piedi l’agricoltura, l’industria alimentare e quella manifatturiera, ma deve puntare sull’apertura di prospettive eurasiatiche (eurázsiai távlatok).

C’è tutta una serie di argomenti, conclude l’esponente di Jobbik, che impone all’Ungheria una scelta di campo geopolitica, riassumibile nella parola d’ordine di Pál Teleki, che fu primo ministro dal 1920 al 1921 e poi dal 1939 al 1941: “A oriente, Ungherese!” (Keletre, magyar!). Gábor Vona ripete l’esortazione di Teleki ed aggiunge: “Diamogli ascolto!”

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